domenica 21 febbraio 2021

Concludere la crisi: come chiudere questo casino

È la sera del 2 Febbraio 2021. Il Presidente della Camera, Roberto Fico, ha appena rimesso, nelle mani di Sergio Mattarella, il mandato esplorativo affidatogli. Esito: negativo. L'ipotesi di un terzo governo Conte muore definitivamente, ed il Presidente della Repubblica è chiamato a prendere una decisione, ed a farlo in fretta. Decide che non si può, non si deve, andare ad elezioni, e prende la situazione in mano con un appello al paese ed alle forze politiche. 

"[...] Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica"

Sono parole pesate e ragionate, calibrate al millimetro e sulla cui interpretazione e messa in pratica sono state impiegate le settimane successive. Proviamo a fare un po' di analisi del testo.

C'è quella formula, "governo di alto profilo", che a voler essere maliziosi farebbe storcere il naso. Vuol dire che di solito, in Italia, abbiamo governi di basso profilo e che adesso è il momento di chiamare la gente che veramente sa il fatto suo? 
No, non era questo che voleva dire Mattarella.

Sergio Mattarella è una persona che nella propria biografia mischia due elementi antropologici fondamentali per comprendere i suoi discorsi: è un democristiano ed è palermitano. Dall'appartenenza politica viene quel parlare convoluto, attento, talvolta anche criptico e aperto all'interpretazione, come le profezie di un oracolo, mentre dall'appartenenza geografica e culturale la tendenza a parlare pochissimo, con sintesi e stile laconico, per fare in modo che siano gli altri ad intendere, senza insultare l'intelligenza di chi ascolta parlando fin troppo chiaro.

"Governo di alto profilo" significa dunque governo tecnico, ma non necessariamente. Può significare anche governo politico a guida tecnica, larghe intese politiche presiedute da una figura neutra. L'alto profilo non è, come si potrebbe intendere, un attributo qualitativo associato a chi deve far parte del governo, ma è una prospettiva: dall'alto si vede di più, si vede più lontano, e si riesce ad abbracciare più idee e forze politiche e sociali.

C'è poi quell'altra formula:  "Che non debba identificarsi con alcuna formula politica". Anche qui si sono spese molte interpretazioni. Quello che confonde è quel non debba. Una splendida ambiguità semantica permessa dalla lingua italiana, quell'espressione è contemporaneamente quello che in inglese sarebbe "doesn't have to" (non debba necessariamente) e "shouldn't" (non dovrebbe). E le forze politiche, con slancio esegetico, hanno fatto propria l'una o l'altra interpretazione a seconda della convenienza. Alcuni esponenti della maggioranza uscente si sono appellati alla prima interpretazione per cercare di non disperdere le fila di un'alleanza, quella giallo-rossa, tanto faticosamente perseguita. E dunque un governo che non debba per forza essere politico ma che potrebbe esserlo e sul quale potrebbe sopravvivere e prosperare l'alleanza di centrosinistra. Da Berlusconi e Salvini, invece, l'interpretazione opposta, quella che poi si è rivelata essere vincente. Un governo che non deve assolutamente essere politico, ed in nome di questa apoliticità è possibile immaginare tutto, persino per Salvini di entrare al governo col PD, persino per Berlusconi di mettere un sottosegretario accanto ad un ministro 5 Stelle. 

Terminata questa analisi del testo, che ci servirà come chiave per leggere gli avvenimenti delle settimane successive, è finalmente arrivato il momento di confrontarci con il convitato di pietra: Mario Draghi

Mario Draghi in un celebre momento di spavento durante una contestazione nel mezzo di una conferenza stampa della BCE

Non ci soffermeremo a raccontare la storia di Mario Draghi, perché scommetto che la sapete già tutti e tanta gente l'ha già raccontata prima e meglio di me. La perdita dei genitori all'età di 15 anni, gli anni dell'università come allievo prediletto dell'economista keynesiano Federico Caffè, poi l'insegnamento, il lavoro nelle banche private e il ruolo di governatore della Banca d'Italia, fino all'approdo ai vertici della BCE e la frase che l'ha catapultato nella storia: "Whatever it takes".

Draghi è, senza girarci troppo attorno, l'italiano più prestigioso e rispettato nel mondo. Il suo nome, nel corso degli anni, è stato ciclicamente invocato quando si era in cerca di una figura che mettesse d'accordo un po' tutti: un presidente del consiglio, un commissario europeo, un presidente della Repubblica. Draghi piace alla destra e alla sinistra, e chiunque si schieri anche solo tiepidamente nel fronte europeista non può che mostrare un sommesso senso di riconoscenza nei suoi confronti. Per questo Mattarella lo ha scelto: in una situazione dove le forze politiche hanno dimostrato la loro incapacità di produrre una sintesi quello di Mario Draghi è l'unico nome che ha qualche possibilità di mettere tutti d'accordo.

Personalmente, non ero entusiasta di sapere dell'incarico a Mario Draghi. Non per pregiudizio o mancanza di stima verso l'ex presidente della BCE, sia chiaro, ma perché il suo incarico segna la sconfitta di una politica che è stata incapace di offrire una guida stabile in un momento critico del paese. E non credo alla retorica per la quale i momenti di crisi invocano tecnici: al contrario, i momenti critici sono quelli in cui le scelte politiche riecheggiano con maggiore forza e le azioni intraprese possono avere gli effetti più forti e duraturi. Il Presidente degli Stati Uniti che ha portato gli Alleati a vincere la Seconda Guerra Mondiale era Franklin Delano Roosevelt, un Democratico convinto, non un ammiraglio dell'esercito esperto di strategie di guerra. E quando in Italia c'era da gestire la ricostruzione ed il piano Marshall, al governo c'era Alcide De Gasperi, non Enrico Mattei. Io non credo che un governo tecnico sia una necessità di per sé, credo che sia piuttosto un riconoscimento dell'attuale inadeguatezza della politica. Coltivo comunque la speranza, rassicurata dalla storia personale di Draghi, che farà bene il suo lavoro e assicurerà un futuro dignitoso al nostro paese, ma conservo l'amara consapevolezza del fatto che la politica non è riuscita ad offrire rappresentanza nel momento in cui ce n'era più bisogno.

Come se questa delusione non bastasse, mentre stavo per andare a dormire, la sera di Martedì 2 Febbraio spunta un post su Facebook di Vito Crimi, reggente del Movimento 5 Stelle: "Non voteremo la fiducia al governo Draghi". Quella notte non ho dormito.

Io nella mia cameretta alle 4 di mattina che non dormo perché ho letto che Vito Crimi non vuole votare il governo Draghi che significa che il PD va al governo con la Lega da solo che significa la fine dell'alleanza di csx che significa la destra al 999998986489% che significa che non dormo ecco in sostanza

Con il passare delle ore, però, gli animi si raffreddano. La situazione muta velocemente e trovare una coerenza in ciò che accade non risulta affatto semplice. Proviamo dunque a raccontare le giornate che hanno portato dall'appello di Mattarella alla nascita del governo Draghi concentrandoci, ad uno ad uno, sui principali attori in campo: i partiti. 

La Lega

Matteo Salvini spiazza tutti, rimescola le carte in gioco e fa saltare gli equilibri. La Lega rende noto di voler entrare a far parte della maggioranza. PD, 5 Stelle e LeU oscillano tra il panico e il disorientamento, alternando veti e fredde aperture, richiamati da un lato dal viscerale antagonismo nei confronti della Lega, dall'altro dall'appello alla responsabilità del presidente Mattarella. Nel frattempo Salvini, con un atto di trasformismo talmente spudorato da risultare volgare, si scopre europeista, orientato verso una fiscalità progressiva, perfino a favore di una modalità di gestione dei flussi migratori "sul modello tedesco o spagnolo". Addirittura Borghi e Bagnai, i teorici del No Euro della Lega, plaudono all'avvento di Draghi, con Claudio Borghi (uno che su twitter, come foto di copertina, ha la sua faccia photoshoppata sulle diecimila lire, ancora nel momento in cui sto scrivendo) che arriva a dire che "Draghi è un fuoriclasse, se gioca nella nostra squadra".

La foto di copertina su Twitter di Claudio Borghi

Ma perché Salvini è voluto entrare in un governo guidato dal più europeista degli europeisti dopo essersi schierato, per tanti anni, contro le politiche dell'UE?

A questa domanda possiamo dare due risposte, che non si escludono a vicenda: una risposta politica e una risposta strategica.

La risposta politica

La Lega è uno dei due unici veri partiti, in senso novecentesco, rimasti nel panorama politico italiano, insieme al PD. In quanto tale è animata da correnti interne, interessi divergenti, visioni anche contrapposte e un'innegabile orientamento governista. Nelle scienze politiche si evoca spesso la distinzione tra partito personale e partito personalizzato (qui un link per chi volesse approfondire). La differenza tra i due modelli partitici sta nel fatto che nel partito personale tutte le decisioni sono sotto il controllo del leader, non si muove foglia che il leader non voglia. È il caso di Italia Viva o di Forza Italia alle origini. Nel partito personalizzato, invece, un leader forte serve come scorciatoia comunicativa, un modo per portare gli elettori ad affezionarsi ed identificarsi, ma il potere decisionale non è concentrato in un uomo solo: è condiviso con altri centri di potere all'interno del partito. La cosa importante da capire qui è che la Lega non è un partito personale, ma solo un partito personalizzato. In ultima analisi, un partito nel senso originale della parola. 

Per cui, nella Lega, hanno in realtà sempre convissuto visioni, anche economiche, tra loro in contrasto. Da un lato Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega, portabandiera delle istanze più moderate, vicine a Forza Italia, e dall'altro l'euroscetticismo più puro di Borghi e Bagnai. Questa giravolta può essere vista, dunque, non semplicemente come volgare trasformismo (che tale comunque rimane), ma anche come l'affermazione di una visione interna sull'altra, una restaurazione, chissà se temporanea, della preponderanza dell'anima moderata della Lega su quella estremista.

Il momento del giuramento di Giancarlo Giorgetti per il governo Draghi

La risposta strategica

La risposta strategica sta invece in una legge matematico-politica che è stata molto invocata in queste settimane, e che possiamo parafrasare nel modo seguente:

"Il tasso di politicità di un governo è inversamente proporzionale all'ampiezza della propria maggioranza"

Ciò vuol dire che più una maggioranza è ampia, quindi più partiti stanno dentro, e più sarà difficile mettere d'accordo tutti, più sarà fragile l'equilibrio dei compromessi e più il governo si limiterà a pochi provvedimenti, urgenti e condivisi. Meno partiti stanno dentro, invece, e più è coesa una maggioranza, più è facile che si abbiano visioni comuni e dunque il governo può agire su più campi, anche divisivi.

Alla luce di questa legge è facile comprendere perché Salvini abbia voluto entrare in maggioranza: il suo ingresso non solo limita il raggio d'azione delle politiche del governo Draghi a provvedimenti urgenti e condivisi, ma rende l'equilibrio più precario e avvicina il più possibile una fine del governo e la conseguente chiamate alle urne. Senza Salvini questo governo avrebbe avuto la maggioranza del Conte II + Forza Italia. Non ci sarebbe stato motivo di immaginarne una fine precoce, poiché avrebbe avuto un'investitura politica salda ed importante. Con Salvini dentro, invece, questo diventa davvero un "governo di salvezza nazionale", un "governo di emergenza", un "governo tecnico", tutte formule che ne richiamano la straordinarietà e dunque la provvisorietà.

Il Movimento 5 Stelle 

Nel frattempo, il Movimento 5 Stelle consuma il proprio psicodramma. Dopo la prima dichiarazione di Vito Crimi, i pezzi grossi del Movimento tornano sui propri passi (a testimonianza dell'irrilevanza politica del reggente) ed il giorno dopo sia Luigi Di Maio che Giuseppe Conte aprono alla collaborazione con il presidente incaricato Draghi. Non tutti sono d'accordo. L'ala "ortodossa", che fa riferimento ad Alessandro Di Battista, mal digerisce la scelta del Movimento di collaborare con Draghi, e promette battaglia. È necessario l'intervento de "L'Elevato", Beppe Grillo, per cercare di compattare il partito. Beppe Grillo si sente al telefono con Draghi per due ore, e poi va due volte alle consultazioni con il presidente incaricato. A sentire Beppe Grillo, sembra che tra i due vi sia una stima reciproca, tanto che il comico genovese arriva a dire "Mario Draghi è un grillino, è uno di noi!". Il Movimento 5 Stelle avanza una serie di proposte al premier incaricato, alcune cadono nello spazio di una notte (vedi patrimoniale, sigh), complici anche i veti della Lega in merito, altre invece diventano di bandiera, per via della loro popolarità ma anche della scarsa carica polarizzatrice. In particolare, è la proposta del super ministero della transizione ecologica a diventare l'argomento principale del Movimento durante la fase delle consultazioni. Si tratta della proposta di accorpare i due ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo Economico, sul modello già seguito da altri paesi (Spagna e Francia su tutti), per portare avanti in maniera più decisa una serie di battaglie ambientaliste. Una proposta su cui nessuno, nemmeno la fronda più battagliera all'interno dei 5 Stelle, ha nulla da ridire. 

Beppe Grillo alle consultazioni con Mario Draghi. 

Ma lo scontro finale tra le anime del Movimento è ormai inevitabile. Uscito dal primo giro di consultazioni con Mario Draghi, Beppe Grillo pubblica un post su facebook, con una citazione da lui attribuita a Platone.

"Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso sicuro: voler accontentare tutti"

Beppe Grillo non è Mattarella, ma è un comico, e con le parole sa giocare anche lui. Ecco che quindi questa citazione assume una doppia valenza: da un lato sembra rivolta alla Lega, che blocca le proposte dei 5 Stelle (patrimoniale) e che i grillini non vorrebbero proprio nella compagine di governo. Dall'altra, è rivolta alla frangia riottosa dei 5 Stelle, quella del No a Draghi a prescindere da tutto. Dopo il secondo giro di consultazioni lo scontro si inasprisce. I ribelli lanciano un evento su Zoom, il V-Day 2021, richiamando gli eventi che, tanti anni fa, hanno reso celebre il movimento di Beppe Grillo. Tra i partecipanti una ventina di parlamentari grillini, alcuni vicini a Di Battista, altri cani sciolti, alcuni con un passato di uscite pessime, come Elio Lannutti, che su Facebook condivideva la bufala antisemita dei Protocolli dei Savi di Sion.

L'unico modo per sanare questa frattura è quella di sottoporre la scelta di entrare nel governo Draghi al voto sulla piattaforma Rousseau, lo strumento di democrazia interna utilizzato dagli iscritti del Movimento. Nonostante le resistenze iniziali, alla fine la fazione governista dà il via libera al voto su Rousseau. La votazione era fissata per Mercoledì 10 Gennaio ma Beppe Grillo e Davide Casaleggio, il figlio del co-fondatore del Movimento e proprietario della piattaforma Rousseau, litigano per il quesito da inserire. Davide Casaleggio ha in simpatia l'ala guerrigliera di Alessandro Di Battista, ed il quesito da lui scritto sembrerebbe esser stato scartato da Beppe Grillo, che ne scrive uno di suo pugno, dando vita ad un capolavoro della tragicommedia. 

“Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?” (sic)

Pur sorvolando sul grossolano errore di punteggiatura, non si può non notare come questo quesito sembri già da sé indirizzare ad una risposta positiva. Non che basti questo, sia chiaro, a decidere le sorti di una consultazione, ma è un utile indizio di quanto polarizzante si sia fatta la questione all'interno del Movimento 5 Stelle, e forse denota anche un po' l'ansia di Grillo nei confronti di questa consultazione. Il voto ha luogo nella giornata di Martedì 11 Febbraio e termina con una vittoria dei sì con il 59,3%. Subito dopo, Alessandro Di Battista annuncia il proprio addio al Movimento, terminando (parole sue) una bellissima storia d'amore durata 15 anni. E quindi lui, il più puro dei puri, una volta l'erede designato di Beppe Grillo, abbandona la casa madre, per andare chissà dove. Di Battista era ormai isolato da un po', superato dai tempi, bloccato in quella fase adolescenziale del Movimento, quella delle proteste rumorose, delle ribellioni, delle piazze e dei vaffa. Ma i tempi sono cambiati, il Movimento si è fatto forza di governo, per realizzare i propri obiettivi si è dovuto scontrare con le necessità del compromesso. Questa necessità Di Battista non è mai riuscito a farsela andar bene. 

Alessandro Di Battista con la barba da storia d'amore finita male, nel giorno dell'addio


Superato l'ultimo tornante del voto sulla piattaforma Rousseau, anche il Movimento decide, senza tentennamenti, di entrare a far parte del governo Draghi. 

Il PD e LeU

Il Partito Democratico ha interpretato, più di tutti durante questa crisi, il ruolo di partito della responsabilità, attento esecutore (e realizzatore) delle richieste del Quirinale. Per tale motivo, sin dall'inizio nessuno ha messo in dubbio la partecipazione del principale partito del centrosinistra al governo guidato da Mario Draghi. La situazione, però, ha iniziato a complicarsi quando si sono fatte concrete le possibilità che la Lega entrasse a far parte del governo Draghi. La speranza iniziale del PD era di proporre la cosiddetta Maggioranza Ursula, PD-5S-Forza Italia. La Maggiorana Ursula prende il suo nome da Ursula Von Der Leyen, la presidente della commissione europea, eletta con i voti di queste tre forze politiche. Sempre nelle speranze del PD, il governo Draghi sarebbe dovuto essere un governo politico, con giusto qualche innesto tecnico oltre a Mario Draghi, ma senza strafare. Tutte queste speranze sono però andate a farsi friggere nel momento in cui la Lega ha iniziato le operazioni per entrare nella maggioranza. Inizialmente qualcuno vociferava che il PD mettesse un veto sulla presenza della Lega nella maggioranza, minacciando di ritirarsi dal governo per evitare una coesistenza con l'avversario più ostile, ma il segretario ha continuato a fare appello alla responsabilità ed alla straordinarietà di questo esecutivo.

I problemi del PD non si fermano però a questo. Il segretario Zingaretti è sempre di più sotto attacco dalla minoranza interna, rappresentata in modo anche piuttosto coeso dai gruppi parlamentari che, come spiego nel primo capitolo di questa trilogia, sono stati selezionati da Matteo Renzi. La minoranza fa pressioni per avere, all'interno del governo Draghi, almeno un ministero di peso, minacciando velatamente guerra interna e l'accelerarsi di un processo che porterà, molto probabilmente, il segretario Zingaretti ad essere sfidato dal governatore dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, per il ruolo di leader del Partito Democratico. Ancora una volta il convitato di pietra delle primarie PD sarà Matteo Renzi.

Bonaccini e Zingaretti, potrebbero sfidarsi per la guida del PD nel prossimo congresso

Dalle parti di Liberi e Uguali, il partito-federazione che riunisce le forze politiche a sinistra del PD, non si dormono sonni tranquilli. Dubbiosi sin dall'inizio, quelli di LeU hanno provato a mettere un veto alla Lega, ma è presto caduto, vuoi per l'appello alla responsabilità del presidente Mattarella, vuoi per il troppo piccolo peso parlamentare del gruppo, vuoi ancora per la necessità di assicurare una continuità nell'unico ministero espresso dalla formazione, quello della Sanità, diretto da Roberto Speranza, una casella fin troppo centrale per lasciarla a qualcun altro. Ciononostante, la natura di LeU, che è una federazione di partiti, non un partito, conduce inevitabilmente alla frammentazione. La componente più lontana dal PD, Sinistra Italiana, decide in assemblea di votare contro il governo Draghi, mentre la componente degli ex democratici (Speranza e Bersani) vota compatta a favore di Draghi.

La chiusa della crisi

Dopo giorni di trattative, ipotesi e valutazioni, Mario Draghi presenta finalmente la sua squadra di governo. Si tratta di un mix di tecnici e politici, con i primi in minoranza numerica ma con il controllo di quasi tutti i ministeri più importanti (Interni-Lamorgese, Giustizia-Cartabia, Economia-Franco). Per quanto riguarda la componente politica, ci sono rigurgiti da tutte le parti. I 5 Stelle (4 ministeri di cui solo uno di peso: gli Esteri a Luigi Di Maio) si sentono sottorappresentati rispetto al peso parlamentare. Il PD è logorato dalle faide interne e dalle questioni riguardanti la mancata rappresentanza femminile tra i titolari dei ministeri. Anche Forza Italia, più silenziosamente, si trova ad affrontare beghe interne, dopo che la componente moderata di Brunetta, Gelmini e Carfagna si è trovata rappresentata in toto, mentre quella più vicina alla Lega, rappresentata da Anna Maria Bernini e Antonio Tajani si è trovata con un pugno di mosche. Il governo giura il giorno dopo la presentazione della lista dei ministri e dopo cinque giorni riceve la fiducia del Senato e della Camera. 

Nel discorso presentato alle camere, Mario Draghi espone il suo programma, i cui pilastri erano già noti da tempo. Il Recovery, l'ambiente, il piano vaccinale, i giovani e la scuola, la parità di genere. Durante il discorso nomina anche Giuseppe Conte, tributandolo. In aula, dai banchi dell'ex maggioranza, parte un lungo applauso. È l'atto finale, pacifico e conciliatorio, della crisi di governo ormai, finalmente, alle nostre spalle. Partono i titoli di coda. 

Questa crisi si è andata trascinando per mesi, prima come ipotesi, poi concretamente. Seguirla, capirla, interpretarla, non è stato semplice. Ci ho voluto provare, dedicando alla crisi questa trilogia che adesso si conclude. Ho cercato di raccontarla con il mio stile, di renderla accessibile e semplice per tutti, anche per chi non si dovesse interessare troppo delle beghe interne di partiti e parlamentari. Ho cercato di tirarne fuori una storia, con i suoi personaggi, la sua trama, le sue trame, le sue regole. Ho tentato di appassionare. Spero di esserci riuscito. Qualunque sia la vostra opinione in merito, vi invito a condividerla con me. Scriverò ancora. Non so dire quando: dovrò attendere di trovare una storia che valga la pena raccontare. Non so di cosa esattamente, ma penso di poter dire con un certo grado di sicurezza che c'entrerà con la politica. Fino a quel momento, comunque, vi saluto calorosamente. E vi ringrazio. 

Un abbraccio.

- Gaetano Scaduto.


https://quifinanza.it/editoriali/video/cosa-significa-governo-di-alto-profilo-draghi-mattarella/458266/

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-crisi-tavolo-sul-programma-ultime-ore-prima-di-salire-al-colle

https://www.ilmessaggero.it/politica/governo_conte_renzi_draghi_governissimo_ultime_notizie_2_maggio_2020-5204002.html

https://www.rivisteweb.it/doi/10.1415/83199

https://www.youtrend.it/2013/01/29/personalizzazione-e-partiti-personali-sono-la-stessa-cosa/

https://www.ilpost.it/2021/02/03/chi-e-mario-draghi/

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/02/02/lappello-di-mattarella.-il-testo-integrale-del-discorso-_e3bd6b82-c410-4d5a-a2d3-db9a72cf1b25.html

https://stream24.ilsole24ore.com/video/italia/grillo-credevo-draghi-banchiere-dio-ma-e-grillino/ADTpw2IB

https://www.ilblogdellestelle.it/2021/02/un-super-ministero-per-la-transizione-ecologica.html

https://www.huffingtonpost.it/entry/grillo-la-via-per-linsuccesso-sicuro-e-voler-accontentare-tutti_it_601ea54cc5b6c56a89a15882

https://www.corriere.it/politica/19_gennaio_22/elio-lannutti-post-savi-sion-scuse-david-puente-1687a5ae-1e41-11e9-b085-7654f7acb9a3.shtml

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/02/10/news/lite_grillo_casaleggio_rousseau_governo_draghi-287006886/

https://www.ilmessaggero.it/AMP/video/di_battista_col_m5s_stata_bellissima_storia_d_amore-5762168.html

Si ringrazia Leonardo per la revisione.

giovedì 11 febbraio 2021

L'Intermezzo: dal Conte Ter a Mario Draghi, una storia di personaggi


Questo articolo è il secondo di tre capitoli sulla crisi di Governo di inizio 2021. È un intermezzo, dove analizzeremo gli eventi e le manovre avvenute tra gli ultimi giorni del Conte II e la chiamata di Mario Draghi al Quirinale. Resta, come sempre, la missione di offrire un articolo che sia alla portata di tutti, anche di chi la politica non l'ha mai davvero seguita, e che possa risultare accattivante in quanto storia e racconto, prima che cronaca. Ci lasceremo andare a suggestioni e leggerezze, perché un intermezzo serve anche a questo: rigenerarsi prima dell'atto finale. È un capitolo che si sviluppa attraverso i suoi personaggi, più che attraverso gli eventi. Alcuni freddi e calcolatori, come Goffredo Bettini e Bruno Tabacci, altri emotivi e passionali, come Matteo Renzi e Gregorio De Falco, ma tutti presenti e attivi nell'arena, spietata, di questa crisi di governo. Mettetevi comodi allora e rilassatevi: questo capitolo è per rigenerarci.

 Prologo - Tra caronti e capitani

"Io, per quel nome, un'idea ce l'avrei"

Era in corso una estenuante riunione tra i deputati del Movimento 5 Stelle, che aveva debilitato i giovani parlamentari grillini per ore, quando finalmente Alfonso Bonafede, uno dei deputati più in vista del Movimento, se ne uscì con questa frase. 

Era il Settembre 2013, un Settembre torrido al termine di un'estate torrida, in un anno tutto sommato calmo. L'estate appena passata vedeva prima in classifica Wake Me Up di Avicii, il presidente del consiglio era Enrico Letta, il presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano, il capitano della nazionale era Gigi Buffon, ed io avevo appena iniziato la quinta ginnasio.

Alfonso Bonafede aveva 37 anni. Nato a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, nella Sicilia più profonda e autentica, un'adolescenza segnata dagli anni più drammatici della storia siciliana. Poi, a 19 anni, il trasferimento a Firenze, a studiare giurisprudenza, la laurea, con voti discreti, e nel 2006 il dottorato a Pisa e la abilitazione da avvocato. Si avvicina alla politica nella fase embrionale del Movimento 5 Stelle, quando ancora non si chiamava nemmeno così, erano solo gli "Amici di Beppe Grillo". Si candida a sindaco di Firenze con la "Lista Civica Beppegrillo.it", raccogliendo la bellezza di 3796 voti, arrivando settimo su nove candidati. A vincere quelle elezioni sarà un giovanotto sbarbato dall'inglese maccheronico del quale negli anni successivi si sarebbe sentito molto parlare. Ma questa è un'altra storia. Il 25 Febbraio del 2013, infine, Alfonso Bonafede viene eletto alla camera dei deputati nelle elezioni politiche del 2013. 

                                     
Continua la rubrica "foto brutte usate dagli avversari politici per farti sembrare più cattivo", iniziata nell'articolo precedente. Qui, Alfonso Bonafede.

Elezioni stranissime, quelle. Il PD, che sarebbe dovuto essere il trionfatore assoluto di quella campagna elettorale, non riuscì ad essere il primo partito. La coalizione di centrosinistra era quella con più voti, ma non essere il partito più votato portava con sé delle implicazioni che andavano ben oltre il simbolico. Nelle storiche parole del segretario di allora, Pierluigi Bersani, il PD aveva "non vinto".

Il primo partito, con lo 0.1% in più del PD (45.000 voti) era una creatura politica allora ambigua e incomprensibile, temuta, caotica, ma anche innovativa e spiazzante. Il Movimento 5 Stelle. 

La legge elettorale di allora, che premiava le coalizioni, ebbe l'effetto di consegnare al PD ben 292 seggi e al Movimento 5 Stelle solo 108. In coalizione con il PD c'erano poi altri tre partiti: Sinistra, Ecologia e Libertà, di Nichi Vendola, il Sudtiroler Volkspartei, il partito degli altoatesini, e Centro Democratico, un piccolissimo partito di nostalgie democristiane fondato due mesi prima delle elezioni, che prese lo 0.5% (167.000 voti). Lo 0.5% può sembrar poco, ma fu ciò che permise, alla coalizione di Centro-Sinistra, di far scattare il premio di maggioranza e guadagnare i seggi che avrebbero permesso di governare (insieme al Centro) per i cinque anni successivi. Senza quello 0.5% di Centro Democratico, il premio di maggioranza sarebbe andato al Centro-Destra. Il leader di CD era una vecchia volpe della politica nazionale, uno che è sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino, a tangentopoli, alle torri Gemelle, alla crisi economica e adesso al Covid. Un uomo che per trent'anni ha conosciuto le aule parlamentari, e da molto prima conosce quelli che le frequentano. Stiamo parlando di Bruno Tabacci.

                                    
Bruno Tabacci con l'ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita. Nel momento in cui è stata scattata questa foto, Alfonso Bonafede faceva le scuole medie.

Torniamo adesso a quel Settembre 2013. Il 16 di Settembre, al largo dell'Isola del Giglio, era finalmente stata rimessa in asse la Costa Concordia. Quella nave era rimasta lì, distesa su un fianco, per più di un anno e mezzo, inerte. Un disastro che causerà 32 morti e 110 feriti, da imputare all'irresponsabilità del capitano della nave, Francesco Schettino, condannato a 16 anni per omicidio colposo plurimo. La responsabilità invece, la voce della ragione, venne incarnata da un altro personaggio, un altro Capitano, l'uomo che si era occupato in prima persona di coordinare i soccorsi, il capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Non tutti si ricorderanno il suo nome, ma tutti si ricordano la frase che lo rese famoso: "Schettino, vada a bordo, cazzo!". Si tratta di un militare colto e assennato, con una laurea in giurisprudenza e un amore incontenibile per il mare, che l'ha condotto a dedicare a quest'ultimo la sua vita. Il Capitano Gregorio De Falco.  

Il capitano De Falco con indosso una innocente coppola. Sembrerebbe proprio un uomo tranquillo e contenuto.

E torniamo adesso in quella stanza, coi deputati grillini intenti a discutere. Erano in parlamento da meno di sei mesi, ed erano ancora inesperti e spaesati, idealisti e, probabilmente, ingenui. Erano ancora alle prime armi. Oggi, la retorica dei grillini come dilettanti allo sbaraglio lascia il tempo che trova: molti di loro, soprattutto quelli che occupano le posizioni apicali, hanno fatto esperienza per cinque anni all'opposizione e poi per tre hanno governato. Non possono certo più essere definiti dei principianti. Ma nel Settembre del 2013, verosimilmente, lo erano. Tra questi Alfonso Bonafede, che ruppe l'impasse con quella frase.

"Per quel nome, nel consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, io un'idea ce l'avrei". Il nome era quello di un suo professore all'università di Firenze, un professore che Bonafede stimava molto, tanto da chiedere addirittura se potesse fargli da assistente. Quel professore era un uomo sconosciuto fino a quel momento ai 5 Stelle, ma la raccomandazione calorosa di uno come Bonafede era una garanzia sufficiente per potersi fidare. Quel professore, si sarà inteso, era Giuseppe Conte

Passano gli anni e si arriva al 2020, e le vite di questi personaggi proseguono.

Bonafede si farà per anni le ossa in commissione giustizia alla camera. Poi, nel 2018, a seguito del trionfo elettorale del Movimento, diventa ministro della giustizia nel governo Conte I e nel 2019 sarà uno dei pochissimi ad essere riconfermato, nella stessa posizione, nel governo Conte II. Un'ascesa irresistibile quella di Bonafede, oggi un'intoccabile tra i pentastellati, ma, come tutti gli intoccabili, anche un uomo con molti nemici. Tra i peggiori nemici di Bonafede, oggi, c'è il vincitore di quelle elezioni a Firenze che furono la sua prima gavetta elettorale: Matteo Renzi.

Il professor Giuseppe Conte mostra la propria gratitudine al suo assistente Alfonso che gli ha corretto tutti gli scritti del primo appello in tempo record, inizio anni 2000.

Bruno Tabacci siede ancora tra gli scranni del parlamento, alla camera, ed è arrivato alla sua sesta legislatura. È stato rieletto nel 2018, grazie ad una strategia da vecchia volpe politica. 

Il partito +Europa di Emma Bonino godeva, alla vigilia delle elezioni del 2018, di un buon consenso, ma non era riuscito a raccogliere le firme necessarie a presentare la propria candidatura. Tabacci decide di salire a bordo del carro di +Europa ed in cambio porta in dote il simbolo di Centro Democratico. La legge italiana, difatti, prevede che ci si possa presentare alle elezioni se, in alternativa alle firme, si presenta un simbolo che era già stato presentato alle elezioni precedenti. Tabacci diventerà poi presidente di +Europa, ma ne uscirà alla formazione del secondo governo Conte, in polemica con la decisione del partito della Bonino di collocarsi all'opposizione. E così Bruno Tabacci si ritrova nel gruppo misto, ma non si perde certo d'animo. Oggi ha radunato attorno a sé un gruppetto di fuoriusciti grillini. Gente senza una guida, deputati alla prima esperienza politica spaesati ed in cerca di una bussola, di un Virgilio che li conduca nel loro viaggio e gli sveli le tecniche ed i segreti dell'arte politica. E così, tra un caffè al bar e una pastasciutta al pranzo, quest'uomo, che si è autodefinito "traghettatore di anime perdute", li cresce e li istruisce, con l'autorevolezza conferitagli dalla sua esperienza.

Il Capitano De Falco, invece, viene eletto al Senato nel 2018, con il Movimento 5 Stelle. La sua permanenza nel Movimento, però, non durerà a lungo. Dopo nove mesi verrà espulso per aver assunto, in parlamento, alcune posizioni contrarie a quelle espresse dal suo partito, tra cui l'opposizione al Decreto Sicurezza di Salvini. Il Capitano si ritroverà quindi naufrago nel gruppo misto e sempre in aperta ostilità con Matteo Salvini. Una malsopportazione reciproca che deflagra in un momento divenuto iconico quando, durante la crisi di governo del 2019, quella che portò alla caduta del governo Conte I, De Falco mimerà per diversi minuti, con il volto trasfigurato dalla rabbia, un gesto verso Salvini. Il labiale è chiarissimo "Buffone, vai a casa!".

Il Capitano De Falco contro Matteo Salvini al Senato. Non esattamente il tipo di persona a cui vorresti fregare la ragazza.


Atto I - Il tempo dei costruttori

Il governo Conte era sopravvissuto al voto di fiducia in Senato per il rotto della cuffia, ma non passò molto tempo prima che tutti si accorgessero che si trattava, in tutto e per tutto, di una vittoria mutilata. La maggioranza era stata raggiunta solo per via dell'astensione di Italia Viva, e un governo con dei numeri così risicati sarebbe risultato bloccato, paralizzato dai veti incrociati delle forze politiche di centro (tra tutte il partito di Renzi) che avrebbero avuto il potere di affossare anche il più piccolo dei provvedimenti. Era quindi necessario un reclutamento. Conte ne parlava coi suoi fedelissimi: quei costruttori tanto invocati era il momento che si facessero vivi. I pretoriani del presidente si muovono con diligenza nella smaniosa ricerca di senatori. Li cercano ovunque: senatori moderati di Forza Italia, renziani che non vogliono uscire dalla maggioranza, ex democristiani dallo spiccato istinto di sopravvivenza. Questa ricerca, però, non può andare avanti a lungo. Per il 27 Gennaio è fissato un voto su una relazione del ministro Bonafede, bestia nera di Italia Viva, che stavolta non ha intenzione di astenersi. I numeri per avere la maggioranza su quella relazione non ci sono, e ciò significa che il governo rischia di essere messo in minoranza. Sarebbe la fine, inequivocabile, non solo del Governo Conte II, ma anche della possibilità di Conte di guidare un altro esecutivo. 

C'è bisogno di qualcuno che muova qualcosa tra gli scranni del parlamento, sia al Senato che alla Camera. Un compito che viene affidato a Bruno Tabacci e Gregorio De Falco. 
La missione del Capitano e del Traghettatore è più chiara che mai: raccogliere naufraghi ed esuli di tutti i partiti e condurli nel porto sicuro della maggioranza. I due fondano il gruppo parlamentare "Europeisti - Maie - Centro democratico", ma fondare un gruppo non è abbastanza. I responsabili non arrivano. Da Italia Viva nessuno osa tradire Renzi. Il centrodestra serra i suoi ranghi, e le formazioni centriste ad esso associate (UDC, Noi per l'Italia, Cambiamo!) non concedono un millimetro. Emblematico risulta essere, a questo proposito, il caso di Luigi Vitali, senatore di Forza Italia che la sera del 27 Gennaio annuncia di voler passare nella compagine di Tabacci e De Falco, ma la mattina del 28 ci ripensa, dopo aver sentito telefonicamente Berlusconi e Salvini. Il centrodestra sembra essere più compatto che mai.

Lorenzo Cesa, leader dell'UDC, una delle piccole formazioni di centro corteggiate da Conte. Su di lui sarà aperta un'indagine per concorso esterno in associazione mafiosa il giorno successivo la chiusura definitiva a Conte. Il fatto che in questa foto sembri cattivo giuro che non è voluto. 

Nel frattempo, oltre a De Falco e Tabacci, altre forze si muovono a sostegno di Conte. Una in particolare sembra spiccare su tutte le altre, per eccentricità e per imponenza: Goffredo Bettini.

Bettini nasce a Roma nel 1952, in una famiglia aristocratica che l'ha cresciuto da bambino prodigio (il padre, racconta Bettini al Corriere, da bambino gli faceva leggere Dostoevskij). A 14 anni, mentendo sulla propria età, si iscrive al Partito Comunista Italiano, e da lì sarà vero amore. Come succede con tutti gli amori, quando l'esperienza del PCI giunge al capolinea, Bettini attraversa un forte dolore, una depressione che (racconta lui all'Espresso) durerà per tre anni.

Ma Bettini è un pragmatico e un intellettuale. La sua vita va avanti: deputato, senatore, europarlamentare. Si compra una casa a Koh Samui, dove vive insieme a cinque famiglie thailandesi. Indossa spesso camicioni con scollo alla coreana che gli conferiscono una certa aria zen. Nel PD lo chiamano "Il monaco". Legge, scrive e studia tantissimo, ma soprattutto consiglia. Bettini non assume cariche in prima persona, ma manovra e consiglia, seleziona ed indica. Un approccio da Prima Repubblica che alimenta la sua immagine misteriosa e al di sopra delle parti. Non abbastanza, però, per non entrare nel mirino del rottamatore, Matteo Renzi.

In tempi non sospetti, Bettini aveva anche sostenuto Renzi, ma oggi i due non potrebbero essere più lontani. Sembra addirittura (dal Corriere) che dopo questa crisi di governo non si parlino nemmeno più. Ed in effetti, le cose tornano. Bettini è l'emblema della vecchia guardia postcomunista del PD, Renzi è il rottamatore. Bettini è un intellettuale di pensiero, Renzi un uomo d'azione. I due non potrebbero essere più diversi, ed il loro duello si consuma nell'arena della crisi di governo.

Bettini è stato, negli ultimi tempi, il grande protettore di Giuseppe Conte, l'uomo che più di tutti, all'interno del PD, si era speso in prima persona per la sopravvivenza politica dell'avvocato. Membro della direzione nazionale del Partito Democratico e sostenitore di Zingaretti alla segreteria, Bettini si è ritagliato il ruolo di tramite tra il presidente del Consiglio ed il Partito Democratico. A lui faceva capo l'operazione responsabili, di cui De Falco e Tabacci erano i luogotenenti parlamentari. Era lui che telefonava a Gianni Letta, numero 2 storico di Silvio Berlusconi, per chiedere il supporto di una pattuglia di responsabili di Forza Italia. 
Bettini cerca in tutti i modi di ricucire le fila di un governo che si sfalda ogni giorno di più, ma Renzi fa saltare ogni ponte. Bettini si muove nel sottobosco parlamentare, Renzi nei salotti televisivi. 

Matteo Renzi e Goffredo Bettini in una foto dei primi anni della stagione renziana. Bettini ne fu un sostenitore, in un primo momento, ma due caratteri, e due storie, così diversi non potevano che collidere. 

Il 26 Gennaio diventa chiaro che la situazione non si risolverà in poco tempo, e comunque certamente non prima del fatidico voto su Bonafede. Conte è messo all'angolo e costretto a compiere la scelta necessaria: sale al Quirinale e rassegna le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica. Adesso è crisi per davvero. 

Le forze politiche sono in subbuglio, le ipotesi di fantapolitica si inseguono. A chiunque si chieda salta fuori una soluzione diversa: Conte è ancora disperatamente alla ricerca dei responsabili, Renzi si dice disposto a trattare per rientrare in maggioranza, il PD, Leu e i 5 Stelle difendono il premier uscente, Berlusconi invoca un governo di unità nazionale, Salvini e Meloni vogliono andare a elezioni, ma poi Salvini ci ripensa e vuole anche lui il governo di unità nazionale, anzi no, vuole le elezioni. Le dichiarazioni si inseguono sempre più indecifrabili, si costruiscono speculazioni sulle ambiguità semantiche nelle dichiarazioni dei leader. Nessuno sa cosa starà per succedere. Si lanciano ogni giorno nomi per un nuovo presidente, dai più realistici ai più fantasiosi: Conte Ter, Di Maio, Gentiloni e Conte va a fare il commissario europeo, Draghi, Cartabia, Roberto Fico, Luciana Lamorgese.

Il presidente della Repubblica apre le consultazioni con i partiti. Leu, PD, 5 Stelle e il neonato gruppo di De Falco e Tabacci fanno tutti convintamente il nome di Giuseppe Conte. Il centrodestra dice a Mattarella di voler andare al voto ma di non escludere del tutto altre soluzioni istituzionali. Renzi, dal canto suo, mostra uno spiraglio per riaprire il dialogo con la maggioranza, seppure non entusiasta della possibilità di un terzo governo Conte. "Si discuta prima di contenuti, poi di nomi", dice Renzi, una formula che vuol significare che se Conte ci tiene davvero a rimanere presidente del consiglio allora Italia Viva è pronta a portargli via anche le mutande. 

Giuseppe Conte e Paolo Gentiloni nel momento del passaggio di consegne nel ruolo di presidente del Consiglio. Oggi Gentiloni è commissario europeo agli affari economici. Tra le varie fantasiose ipotesi di governo, c'era quella di richiamare Gentiloni al governo e mandare Conte a fare il commissario. 

Atto II - L'Esplorazione 

Il 29 di Gennaio terminano le consultazioni con i partiti e Mattarella prende una decisione: mandato esplorativo a Roberto Fico, il presidente della Camera. Prima di passare alle considerazioni, vediamo di capire bene cosa sia un mandato esplorativo. La Treccani definisce il mandato esplorativo nel seguente modo:

"L’incarico che il Capo dello Stato affida a un uomo politico per una prima indagine sulla possibilità di formare il governo"

Non si tratta dunque, ed è bene che sia chiaro, del conferimento di un vero e proprio "mandato". Si tratta di una missione. Il Presidente della Repubblica affida, solitamente al presidente della Camera o del Senato, l'incarico di avviare un secondo giro di consultazioni, più stretto ed informale, più politico e meno istituzionale, per raccogliere informazioni approfondite sulla concretezza della possibilità di una maggioranza. Si tratta di una funzione che non è presente nella costituzione, ma è diventata una prassi nella politica italiana. Dal 1957 sono stati conferiti in totale 12 mandati esplorativi. Al termine del mandato esplorativo, l'incaricato discute con il Presidente della Repubblica le conclusioni alle quali si è giunti, e quest'ultimo poi prende una decisione.

Roberto Fico è nato a Napoli nel 1974. Napoletano verace (si è laureato con una tesi sulla musica neomelodica), fa parte di quel gruppetto di fedelissimi della prima ora di Beppe Grillo in cui vi era anche Alfonso Bonafede. Da sempre rappresenta l'area in assoluto più a sinistra del Movimento 5 Stelle, l'ortodossia che ha a cuore diritti, ambiente e beni pubblici, ben diversa dall'ala populista rappresentata invece da Alessandro Di Battista e dall'anima governista incarnata da Luigi Di Maio e Vito Crimi.

Fico ha dunque questa missione: insieme ambasciatore e paciere, notaio e diplomatico, dovrà cercare di trovare il sostegno ad un nuovo governo "a partire dal perimetro della maggioranza uscente" (Mattarella, 29 Gennaio). Fico riunisce le forze politiche attorno ad un tavolo e cerca di trovare una sintesi.

Tra le cose per cui si ricorda Roberto Fico, forse la più nota, mediaticamente, è questa foto: il presidente della Camera va al lavoro in autobus. Che si tratti di un atto nobile e tenero o di una volgare trovata populista, sta a voi giudicarlo.

Ma questa ricerca si fa ogni giorno più complicata. Le trattative sono tese, si discute di nomi e di temi polarizzanti. L'appuntamento di Fico con il presidente Mattarella era stato fissato per la mattina di Martedì 2 Febbraio ma, dato lo stato delle trattative, Fico chiede al capo dello stato un'altra mezza giornata per cercare di trovare una quadra. Nel pomeriggio di Martedì però, la situazione precipita ed il banco salta. L'intesa non viene trovata.

Riguardo ciò che è successo al tavolo delle trattative Martedì 2 Febbraio le versioni dei partiti divergono. I 5 Stelle accusano Renzi di aver voluto parlare solo di nomi piuttosto che di contenuti, rilanciando veti su veti per rendere sempre più inaccettabile per i grillini una mediazione fino a far saltare il banco. Renzi dal canto suo dice che i pentastellati non sono stati disposti a cedergli nulla di ciò che aveva chiesto, dalla rimozione di ministri come Bonafede e Azzolina ad un ridimensionamento del ruolo del commissario speciale per l'emergenza Domenico Arcuri, passando per la richiesta di prendere almeno una frazione del MES. La versione del PD coincide in buona parte con quella dei pentastellati. Non potremo mai sapere con certezza cosa si sia detto a quel tavolo. Certo è che, conoscendo gli eventi che sono seguiti, ovvero un esito che era esattamente ciò che Renzi auspicava dall'inizio, le cose sono due: o Renzi è il politico più fortunato della storia, che viene mosso solo da puro idealismo e spirito di servizio e per questo viene baciato dagli Dei che gli garantiscono un destino favorevole, oppure è lo stratega più abile e spregiudicato della politica italiana, in grado di dare luogo ad una crisi di governo caotica e scombinata e di pilotarla esattamente verso la soluzione a lui gradita, senza che nessuno sia riuscito a metterlo all'angolo e bloccare il suo gioco.

Probabilmente sono stati commessi degli errori tattici, ma è anche vero che Renzi si muoveva in una situazione a lui favorevole. Le aperture del centrodestra ad una soluzione istituzionale gli hanno dato la sicurezza per tirare la corda fino a farla spezzare senza il rischio di vedersi risucchiare verso le elezioni. E quindi la posta veniva alzata ad ogni incontro, premendo sempre su tasti dolenti, sui punti sui quali era consapevole che gli ex alleati non avrebbero potuto trattare. Batteva su Bonafede, per il quale a tratti Giuseppe Conte sembrava pronto a farsi scudo con il proprio corpo, batteva sul MES, sul quale i 5 Stelle non avrebbero mai potuto aprire, tenuti in scacco dalle tensioni interne. Nessuno, però, è stato capace di scoprire il bluff di Renzi (se davvero di bluff si trattava), di concedergli qualcosa per far vedere a tutti che non si sarebbe accontentato perché il vero obiettivo era altro e, quelli portati al tavolo da Fico, pretesti per far saltare il banco. Renzi così ha potuto ottenere quello che voleva dipingendosi come il politico assennato, disposto a trattare ma verso il quale, da parte degli altri, non c'era alcuna apertura. 

Roberto Fico aveva già ricevuto un incarico esplorativo, nell'Aprile del 2018, per verificare la possibilità di un governo tra PD e M5S. Anche quel mandato esplorativo fallì ed un mese dopo nacque il governo Lega-M5S, ma Fico dichiarò, sbagliando, che l'esito era stato positivo. 

Le trattative saltano, dunque, e Fico rimette nelle mani di Mattarella il mandato esplorativo con esito negativo. Mattarella deve prendere una decisione e deve prenderla in fretta. Preso atto dell'impossibilità di formare un governo politico a partire dalla vecchia maggioranza restano solo due ipotesi: un governo tecnico o le elezioni. Il presidente della Repubblica ha un ruolo istituzionale, molte delle sue scelte sono quasi obbligate, ma qui Mattarella compie una di quelle scelte di carattere che definiscono una presidenza. Il Presidente decide: non è il momento di andare ad elezioni, e non solo per il rischio sanitario, ma anche e soprattutto perché c'è bisogno di una gestione forte e immediata di dossier come il Recovery e l'attuazione del piano vaccinale, che non possono attendere i tempi di una campagna elettorale e l'insediamento di un nuovo esecutivo. Mattarella decide per il governo tecnico e mette in campo il nome più prestigioso che l'Italia può offrire, l'opzione nucleare: Mario Draghi.


Il nostro intermezzo termina qui, al definitivo tramonto del governo Conte II, e all’alba del primo Governo Draghi La nostra storia continuerà, con il terzo ed ultimo capitolo, e arriverà fino alla nascita del nuovo esecutivo. Vi ringrazio per aver letto e vi invito a dirmi la vostra, commentando o scrivendomi. Un ringraziamento va anche ad Aurora e Leonardo per la revisione. Un abbraccio.


- Gaetano Scaduto


Fonti sparse

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/01/22/news/crisi_di_governo_conte_bonafede-283827501/

https://www.repubblica.it/politica/2018/11/03/news/m5s_di_maio_de_falco_decreto_sicurezza-210706370/?ref=search

https://www.repubblica.it/politica/2021/01/14/news/tabacci_crisi_responsabili_governo_conte-282576254/

https://www.ilmessaggero.it/video/de_falco_contro_salvini_buffone_vai_casa-4685600.html

https://www.corriere.it/politica/21_febbraio_11/renzi-bettini-rottura-25948f5e-6be1-11eb-8932-bc0ccdbe2303.shtml

https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2021/01/12/news/pci-goffredo-bettini-1.358018/

https://www.corriere.it/politica/20_giugno_05/coronavirus-bettini-lockdown-thailandia-leggo-nuoto-chiamo-zingaretti-471f1b7c-a755-11ea-b358-f13973782395.shtml

https://www.fanpage.it/politica/perche-si-parla-di-mandato-esplorativo-e-che-cose/


mercoledì 20 gennaio 2021

Capire la crisi: racconto autoironico sulle ragioni di questo macello


Cos'è una crisi di governo?

In termini puramente giuridici, si parla di crisi di governo quando un esecutivo rassegna le dimissioni a seguito del mancato ottenimento della fiducia da parte delle camere.

Ciononostante, la tradizionale instabilità dei governi italiani (ne abbiamo avuti 66 in appena 75 anni: nello stesso periodo in Germania ne hanno avuti 26), porta l'idea della crisi di governo ad essere talmente familiare ai cittadini italiani che il solo minacciarla la rende concreta. La reificazione della crisi avviene ben prima che essa abbia effettivamente luogo. Avviene sui giornali che lanciano le notizie, sui tg che aprono tutti i giorni coi servizi politici. La diretta conseguenza è di portare gli attori della politica a ragionare dieci mosse avanti, come gli scacchisti, e rende, in un groviglio inestricabile di dichiarazioni e retroscena, sostanzialmente incomprensibile al cittadino mediamente informato l'esplicarsi di questi processi.

Con questo articolo ho deciso di provare a sbrogliare questa matassa, di cercare di restituire linearità alle convolute dinamiche della crisi. Cercherò di farlo, come sempre quando parlo di politica, mettendo la chiarezza di esposizione davanti alla precisione e la linearità del racconto di fronte alla meticolosità. Non per mancanza di scrupolo, ma perché credo che sia il modo più efficace per cercare di capire, insieme, le cause e le conseguenze, i come e i perché, senza perderci in complicazioni che ha senso esplorare solo quando si ha almeno la comprensione del quadro generale.

Per questo vi invito a verificare indipendentemente ciò che vi racconterò, di modo da potervi fare un'opinione vostra e di ascoltare le mie (perché sì, darò le mie opinioni) con sano spirito critico e, perché no, scetticismo. 

Dove far cominciare, dunque, questo nostro racconto della crisi? Da molto lontano, ricostruendo pian piano la storia di questo governo così da poter evidenziare la catena di eventi che ha portato al punto di rottura.  
Iniziamo quindi da dove cominciano tante altre grandi storie: dal peccato originale

Prologo - Un patto col diavolo

È il 20 di Agosto del 2019 quando Giuseppe Conte, in un discorso al Senato, rompe l'alleanza con la Lega di Matteo Salvini, assieme al quale aveva governato per quindici mesi. 

Si tratta di un intervento potente e aggressivo nei confronti di Salvini, talmente aggressivo da far passare Conte, nello spazio di un discorso, dall'essere l'alleato del leader leghista all'esserne il principale avversario, dall'essere il trait d'union dell'alleanza sovranista all'essere il principale portabandiera dell'antisalvinismo (e dunque dell'antisovranismo).

Giuseppe Conte durante il celebre in Senato contro Salvini

Si tratta di un capovolgimento totale che fa saltare il banco su tutta la linea e rende sussurrabile l'impensabile. Lo sbocco naturale di quella crisi di governo, difatti, sarebbero state le elezioni e la fine anticipata della XVIII legislatura (iniziata nel 2018 e la cui fine naturale è prevista per il 2023), ma quel discorso innesta nella mente di alcuni leader quel pensiero stupendo che porta ad immaginare una soluzione diversa: un'alleanza tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle.

A questo punto, per comprendere bene il contesto, dobbiamo dare un po' di numeri.

Andare al voto significava, stando ai sondaggi dell'epoca, una sicura maggioranza per il centrodestra a trazione salviniana. La Lega in quelle settimane registrava sui sondaggi vette del 37%. Nello stesso tempo il M5S, che era uscito trionfatore con simili percentuali alle elezioni del 2018, vedeva il suo consenso dimezzato, al 17.6%. Dopo un anno e mezzo di governo insieme, i due partiti si erano scambiati le percentuali. Il PD si attestava sul 22%, in crescita rispetto alle elezioni precedenti, rafforzato da un anno e mezzo all'opposizione. Infine, Fratelli d'Italia e Forza Italia si attestavano entrambi intorno al 7%.

Cosa fare, dunque? Andare al voto?

Tutti sembravano volerlo. Lo voleva Matteo Salvini, ovviamente, che sarebbe diventato l'uomo più potente d'Italia coi numeri a sua disposizione. Lo voleva Giorgia Meloni, in forte crescita e pronta a scavalcare Berlusconi come numero due della coalizione di centro-destra. Lo voleva persino Nicola Zingaretti, il segretario del Partito Democratico.

Aspé, Zingaretti? Cioè Zingaretti voleva andare alle elezioni e far vincere Salvini? Ma che stai scherzando?

No, Interlocutore Immaginario usato come espediente retorico, non sto scherzando, ma non saltiamo a conclusioni troppo in fretta.

Nicola Zingaretti e Giuseppe Conte in una foto a caso molto divertente che viene spesso usata per farli passare come cattivi dei fumetti.

Zingaretti era stato eletto segretario del PD nel Giugno del 2018, a seguito della sconfitta elettorale del partito tre mesi prima. Sin da subito il nuovo segretario cercherà di dirigere il PD in maniera radicalmente diversa dal predecessore. Zingaretti però, nella sua azione di ristrutturazione del partito, incontra un problema: i parlamentari che sono stati eletti alle elezioni del 2018 sono stati scelti, in larghissima parte, dal suo predecessore: Matteo Renzi. Tra gli scranni del parlamento, nelle file del Partito Democratico, siedono soprattutto uomini e donne che hanno più in simpatia Renzi che Zingaretti, e questa è una situazione che pesa al segretario, che vede limitata la sua influenza sui gruppi parlamentari e la possibilità di poter condurre un'opposizione ben coordinata. Il segretario vuole riprendere in mano, comprensibilmente, il controllo su deputati e senatori del PD. Riconosciuta la necessità politica e storica, per il Partito Democratico, di trascorrere un periodo all'opposizione che lo porti, in prospettiva, a rafforzarsi, Zingaretti vede il voto come l'alternativa migliore per il futuro del proprio partito. 

Tutti d'accordo quindi? Non proprio tutti. Non vogliono andare a votare i Cinque Stelle, detentori della maggioranza relativa sia alla Camera che al Senato, che stando ai sondaggi vedrebbero dimezzata la loro rappresentanza parlamentare. 

Ma c'è anche qualcun altro che non è entusiasta all'idea delle elezioni: Matteo Renzi. L'ex segretario, che in quei giorni fa ancora parte del PD, non ha intenzione di andare a votare, e non vuole farlo per ragioni esattamente speculari a quelle di Nicola Zingaretti. Se Zingaretti ha dalla sua la maggioranza degli elettori del PD, Renzi ha quella dei parlamentari che è, in questo momento, tutto ciò che gli è rimasto dei tempi ormai lontani in cui il senatore toscano era l'uomo più potente d'Italia.

Così accade che, con tempismo straordinario, proprio mentre il voto sembrava ormai l'esito naturale della crisi, Matteo Renzi e Beppe Grillo aprano all'inverecondo: un'alleanza tra PD e Movimento 5 Stelle. È questo il patto con il diavolo al quale faccio riferimento all'inizio di questo paragrafo. Entrambe le forze politiche rappresentavano all'epoca, per i rispettivi elettorati, sostanzialmente l'anticristo. 

Le parole di Grillo e Renzi sono poche e quasi sussurrate. Sassolini. Due sassolini che però risultano essere abbastanza per mettere in moto una valanga che, coinvolgendo poi altri attori (tra cui Dario Franceschini, azionista della maggioranza silenziosa del PD, e Luigi Di Maio), innescheranno una catena di eventi che porterà alla nascita del Conte II. 

Alessandro Di Battista (M5S) nel preciso istante in cui apprende la notizia che il Movimento andrà al governo col PD

Il patto col Diavolo, dunque. Renzi che apre al governo coi suoi acerrimi avversari, che tante gliene avevano dette nei suoi anni di gloria e ai quali ancora porta rancore per la persecuzione mediatica nei confronti del padre Tiziano. E contemporaneamente i 5 Stelle che devono mandare giù il boccone amarissimo di andare al governo coi nemici giurati: il PDMenoElle, il Partito di Bibbiano e chi più ne ha più ne metta, contro il quale per cinque anni avevano scatenato un'opposizione selvaggia e che poi dal governo avevano tronfiamente bullizzato. Da entrambe le parti il boccone da mandare giù è amaro ma necessario, come gli antibiotici che ci davano da bambini. 

A guadagnarci più di tutti è Giuseppe Conte
, che rimane in piedi, quasi l'unico, dopo la tempesta, in un mondo di governo nuovo e opposto a quello al quale era abituato, con un ruolo inedito, centrale e rinvigorito. Dall'essere il vice dei suoi vice al diventare faro dei progressisti. Ancora una volta, e non sarà l'ultima, Giuseppe Conte si dimostra il Forrest Gump della politica italiana. Un uomo che si ritrova sempre, inspiegabilmente, al posto giusto al momento giusto.

Giuseppe Conte e Rocco Casalino nel primo giorno del Conte II

Atto I - All'inizio del nuovo mondo

Con le scelte politiche bisogna fare i conti. La nascita del governo Conte II avviene sotto la narrazione (più o meno veritiera, spetterà al lettore deciderlo) che quel governo e quell'alleanza siano stati prodotti per scongiurare il rischio di elezioni, che avrebbero avuto come conseguenza la maggioranza più a destra della storia della Repubblica. Una maggioranza che avrebbe non solo governato con numeri sbalorditivi (tali da poter addirittura approvare modifiche alla costituzione), ma anche eletto il successore di Sergio Mattarella. Renzi, più di tutti, rivendica per sé stesso il merito di "non aver lasciato il paese in mano a Salvini", e con lui molti altri esponenti della maggioranza. Tutto ciò tacendo, segreto di Pulcinella, il fatto che fino al giorno prima lo stesso presidente aveva Matteo Salvini come vicepremier.

Poco dopo la nascita del governo, Renzi fa la sua mossa per riacquisire centralità nelle decisioni dell'esecutivo e consuma, dopo dodici anni, il suo divorzio col PD. Si tratta di una separazione che ha grandi connotazioni simboliche. Il PD era il partito che l'aveva prima osteggiato, ai tempi in cui era una scheggia impazzita che era arrivata a diventare sindaco di Firenze lanciando anatemi sui vecchi da rottamare; poi amato quando aveva visto in lui il giovane ed energico leader che l'aveva portato alle vette percentuali più alte della propria storia; e infine additato come causa di tutti i suoi mali, elettorali e non, dopo la sconfitta del 4 Marzo 2018. Il partito del quale per cinque anni, più di chiunque altro, era stato segretario. 

Renzi fonda Italia Viva, un partito personale in piena regola, composto dai suoi fedelissimi, il Giglio magico, e totalmente sotto il suo controllo. Un partito funzionale al suo leader, che trova in esso la propria ragion d'essere ed il proprio fine. Quando li si vede camminare per le strade di Roma, quelli di Italia Viva, sembrano usciti da uno di quei film d'azione in cui il protagonista riunisce una banda di professionisti altolocati per mettere a segno il colpaccio alla banca centrale. Oppure, ancora meglio, viene in mente la scena iniziale del Divo, di Paolo Sorrentino.

Presidente, sta arrivando una brutta corrente...

Passano cinque mesi, il governo va avanti e le vicende politiche ordinarie procedono con lui. Verso la fine di Febbraio, l'Italia si ritrova suo malgrado ad essere uno degli epicentri della più grande ondata pandemica della storia contemporanea. Niente, in politica come altrove, sarà più come prima. 

Tempi duri, quindi, che richiamano decisioni forti e veloci. Tempi complessi, dove ogni avvenimento politico genera conseguenze macroscopiche che riecheggeranno negli anni con le loro implicazioni. Tempi nei quali c'è bisogno di sicurezze, di volti familiari, di scorciatoie cognitive che ci rassicurino nello smarrimento, che diano ordine al caos, che ci offrano una luce in fondo al tunnel. I tempi duri, creano leader forti, o almeno rendono forti, agli occhi di chi ne ha bisogno, i leader del momento. 

Quindi ecco che nei primi mesi della pandemia la popolarità di Giuseppe Conte arriva alle stelle, facendo di lui il personaggio politico in assoluto più popolare del paese. Una grossa rivincita da parte del signor Nessuno che ai tempi del suo primo governo veniva schernito per la sua incapacità di essere protagonista della scena. La pandemia, ha l'effetto di offrire a Conte una possibilità di rivalsa su tutti coloro che lo additavano di essere un leader insipido, incolore e inodore. 

L'emergenza conferisce a Conte una centralità mediatica che nessuno avrebbe osato immaginare. Tutta Italia inizia ad aspettare, nervosamente, le sue conferenze stampa in diretta all'ora di cena. Si pende dalle sue labbra per sapere cosa ne sarà della nostra vita quotidiana, dove è andata a finire e quando tornerà la nostra normalità. E Conte si improvvisa padre e si esibisce davanti a tutta Italia sfoggiando la sua retorica melliflua e ottimista, che può piacere o meno (io stesso sono oscillante su questo tema) ma che resta senza dubbio impressa, complice anche il momento drammatico: "Allontaniamoci oggi per abbracciarci più forte domani". E poi i post su Facebook, i tweet, i discorsi in parlamento. Ovunque e tutti i giorni si parla di Conte.


Conte durante una delle puntate della fiction più seguita d'Italia

Ma oltre alla centralità mediatica, gli conferisce anche una centralità politica e decisionale senza precedenti. Lo strumento legislativo del DPCM (il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) viene usato con cadenza regolare per attuare i provvedimenti legati all'emergenza sanitaria. Si tratta di uno strumento da usare con parsimonia in uno stato democratico, poiché consente al potere esecutivo (il governo) di esercitare un potere legislativo (che spetta al parlamento). Oltre a ciò, Conte nomina il commissario straordinario per l'emergenza e, successivamente, è pronto a nominare uomini di fiducia per gestire i fondi della ricostruzione. Quella che per anni era stata indicata come la sua debolezza, ovvero l'essere esterno ai partiti, inizia a diventare la sua forza: l'indipendenza dalle logiche di partito gli dà la possibilità di agire fuori dai condizionamenti. 

Passa la prima ondata e passa anche la seconda, e la nostra vita ormai si adatta ai ritmi sincopati delle aperture e delle chiusure, in uno stato di emergenza che dà l'idea di tempi così catastrofici e al contempo così normali, dove le strade sono deserte o al massimo popolate da pochi volti resi estranei dalle mascherine, ma in televisione i programmi di varietà e intrattenimento vanno in onda lo stesso. Dove i cinema e i teatri sono e restano chiusi, ma il teatro della politica non smette di intrattenere.

È in questo quadro, circa alla metà di Dicembre del 2020, che avviene quella magica reificazione di cui parlavo in testa a questo articolo. La minaccia velata della crisi apre la crisi. Il sussurro di volerla innescare è esso stesso l'innesco. I giornali e le televisioni iniziano a parlarne e la concretizzano. Il corso degli eventi segue il prevedibile e la politica fa il resto.

Vabè ho capito Gaetà, però ora basta con ste menate intellettualoidi e rispondi all'unica domanda che chi sta leggendo questo articolo vuole che affronti: perché questa crisi di governo?

Hai ragione Interlocutore Immaginario: è arrivato il momento di affrontare questa domanda. 

Atto II - La crisi e i suoi perché

Per rispondere efficacemente sul perché c'è questa crisi di governo sarà necessario aggiungere complessità alla domanda, così da poter cercare insieme di dare una spiegazione che fili in tutti i suoi punti. Quindi, invece di chiederci solamente "Perché c'è la crisi di governo?" sarà necessario chiederci:

- Perché la crisi adesso?
- Per quali cause?
- Per quali fini?
 
Perché la crisi adesso?

Mattarella che mannaggia mancava così poco alla fine del mandato e invece si ritrova in mezzo ad un'altra crisi..

Questa è l'unica domanda alla quale possiamo rispondere senza incertezze. La crisi viene aperta adesso perché oggettivamente questo governo nasce da quel peccato originale, quel patto col diavolo tra Renzi e Grillo di cui parlavamo poco fa, con il quale prima o poi si sarebbero dovuti fare i conti. Non solo. La scissione di Italia Viva dal Partito Democratico si consuma a poche settimane dalla nascita del governo Conte II, e ciò significa che, nel momento in cui sono state assegnate le caselle di governo, i renziani non sono stati considerati come una componente della maggioranza (dando quindi a loro magari un ministero di peso), ma come una corrente interna al PD, alla quale sono stati assegnati giusto due ministeri di secondo piano: l'Agricoltura e la Famiglia. Una crisi, per rimescolare le carte e assolversi dal peccato originale, era quindi già in nuce nell'infanzia di questo governo

Il mondo però si è messo di mezzo, è arrivata la pandemia ad oscurare qualunque manovra politica. Serviva unità nazionale ed era imperativa unità nella maggioranza, per cui la crisi è rimasta lì, nello stato latente, a covare ed attendere il momento adatto per saltar fuori. L'emergenza non è finita, è vero, ma con il piano vaccinale in corso è possibile dire che il peggio è passato. Non solo, questa crisi, se s'ha da fare (e, per quanto abbiamo detto, s'ha da fare) deve avere necessariamente luogo prima di Giugno, in quanto da Luglio in avanti inizia il semestre bianco, ovvero gli ultimi sei mesi dell'attuale Presidente della Repubblica, durante il quale quest'ultimo non ha il potere di sciogliere le camere e mandare il paese al voto. Ciò significa che se Renzi avesse innescato questa crisi a Luglio avrebbe certamente potuto portare alla caduta del governo, ma non avrebbe avuto nel suo arsenale tattico lo spauracchio del voto, che per ragioni costituzionali avrebbe potuto aver luogo solo a Marzo o forse Maggio 2022. Il momento, dunque, non poteva che essere adesso.

Per quali cause?

Renzi presenta la sua controproposta al Recovery di Conte: il piano Cultura, Infrastrutture, Ambiente e Opportunità. Che mattacchione. 

C'è il discorso del peccato originale, certo, ma non basta. Quelle che Renzi e compagni hanno portato come motivazioni per l'innesco della crisi possono o meno essere giudicate pretestuose a seconda della malizia con cui la si veda, ma vale la pena di passare in rassegna i motivi per i quali Matteo Renzi dice di aver innescato la crisi.

C'è anzitutto la questione del protagonismo politico di Giuseppe Conte, protagonismo che si è manifestato soprattutto nella gestione del piano per il Recovery Fund. Il Recovery è il piano Marshall del nostro secolo, si tratta di una quantità di fondi abnorme, destinata a ricostruire in meglio ciò che la pandemia ha distrutto, si tratta di spendere e spendere tantissimo per gettare le fondamenta per la ripresa economica di questo paese nei prossimi venti anni. È un'occasione che non solo non può andare sprecata, ma deve imperativamente essere sfruttata al meglio delle proprie potenzialità. Giuseppe Conte aveva inizialmente pensato, come struttura attuativa del Recovery, ad un impianto gerarchico (alcuni giornali lo chiamavano la piramide) composto da commissari di sua nomina e di sua fiducia. Questa struttura, sintomatica di certe velleità protagonistiche, è stata accantonata, anche a seguito delle proteste di Renzi (e non solo). 

C'è poi la questione dell'allocazione dei fondi del Recovery. La prima bozza del piano difatti prevedeva, tra le altre cose, di destinare solo nove dei 209 miliardi alla sanità. Una cifra che fa storcere il naso, soprattutto se si pensa che questa crisi è stata innescata da una pandemia che, se avesse trovato una sanità più pronta ad affrontarla, sicuramente avrebbe causato una quantità non indifferente di danni e morti in meno. Non dimentichiamo che i vari lockdown, totali o parziali, hanno avuto luogo soprattutto per il fatto che i posti in terapia intensiva in quasi tutte le regioni non erano sufficienti a far fronte all'emergenza. Quindi logica vorrebbe un investimento maggiore nella sanità, che difatti a seguito delle critiche, talvolta feroci, portate avanti anche da Renzi, è avvenuto. Oggi la cifra da destinare alla sanità è 20 miliardi. Meglio, se chiedete a me, ma non abbastanza. 

L'allocazione dei fondi nella prima bozza del recovery fund

Un altro casus belli è il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, un fondo di 36 miliardi di euro (di prestiti) da spendere esclusivamente in Sanità. Attivare o meno il MES è una questione divisiva nella maggioranza, perché avrebbe conseguenze complesse e non facilmente prevedibili, che non starò ad esporre in questa sede. Renzi, però, il MES lo vuole, e tanto. Conte, da parte sua, si mostra timido e cerca di sviare la questione, anche perché tenuto in scacco da un Movimento 5 Stelle schierato categoricamente sul No al MES.

Infine, c'è la questione della delega per i servizi segreti, una funzione che per prassi il presidente del consiglio cede ad un uomo di fiducia, ma che Conte aveva detto, fino all'ultimo, di voler riservare per sé stesso. Questo fatto veniva portato ancora sul piatto come sintomatico dell'eccessivo protagonismo politico del Presidente del Consiglio. Su questo punto Conte cederà solo nel discorso alla Camera del 18 Gennaio.

La questione delle cause dunque è composta da temi sui quali Conte sembrerebbe alla fine sia stato disposto a cedere (in gran parte). Anche all'occhio meno malizioso, dunque, le cause indicate da Renzi non possono bastare come spiegazione del "Perché c'è 'sta crisi?". Possono costituire una parte della risposta, certamente, ma non riescono a soddisfarci. Per cercare quindi questa soddisfazione, dovremo addentrarci nei fini. 

Per quali fini?

Le super sexy "poltrone", il cui irresistibile charme è stato invocato da tutte le parti in causa durante questa crisi, adottando una retorica che, detto francamente, ha proprio stufato. 

Qui, purtroppo, non possiamo avere certezze, ma possiamo esporre alcune ipotesi più o meno supportate dai fatti. 

Vi è anzitutto una lettura psicanalitica, che molti giornalisti tengono a cuore e che sinceramente lascia il tempo che trova, ma che contribuisce a donare una certa caratterizzazione ai nostri personaggi, che di sicuro ci rende, se non meno veritiera, almeno più intrigante questa vicenda. 
Renzi è dipinto come un narcisista con uno smodato bisogno di stare al centro dell'attenzione, bisogno che il suo ruolo di leader di un piccolo partito porta a lasciare inappagato. Il suo sarebbe quindi, secondo questa lettura, un suicidio narcisista, con l'obbiettivo di tornare sotto i riflettori e magari da questo raccogliere qualche consenso. Francamente difficile da credere. 

C'è poi l'ipotesi dell'ultima spiaggia. La fiducia verso Renzi è passata dal 74% al 12% nello spazio degli ultimi sei anni. Dall'essere l'uomo più popolare d'Italia a quello più impopolare. Tutto ciò che gli rimane è il manipolo di fedelissimi che l'hanno seguito in Italia Viva. Diciotto senatori e trenta deputati: pochi, ma abbastanza per pesare e tenere la maggioranza per i proverbiali zebedei. Solo attraverso le manovre parlamentari del suo partito Renzi potrà essere in grado di risalire nei sondaggi (che oggi lo darebbero addirittura fuori dal parlamento). Solo riacquisendo visibilità e potere potrà rendersi titolare di alcune scelte del governo (il MES, certi aspetti della gestione del Recovery, etc) che potrebbero conferirgli, agli occhi dell'opinione pubblica, se non approvazione quantomeno un certo credito. 

Infine, c'è l'ipotesi strategica. Renzi vuole avere un peso materiale nelle decisioni del governo, e si è reso conto che il modo più efficace per avere un peso non è all'interno della maggioranza, bensì in quella linea sottile che separa l'esterno della maggioranza dall'opposizione, in quel sottobosco parlamentare all'interno del quale avvengono i veri rimescolamenti che decidono quali provvedimenti verranno approvati e quali verranno bocciati. Con una maggioranza così sottile come quella che dovrebbe avere Conte in assenza di Italia Viva, i voti di Renzi e compagni risulteranno acqua nel deserto per realizzare qualunque legge. In questa privilegiata posizione, Renzi si troverebbe a trattare, su ogni singolo provvedimento, da una posizione libera e svincolata, che gli permetterebbe di bocciare e rendere virtualmente inottenibile qualunque obiettivo del governo che non riesca ad incontrare il suo assenso, e il tutto senza doverne rendere conto alla maggioranza. 

Visto che l'abbiamo mostrata per Conte, ecco anche per Renzi una di quelle foto che usano i social media manager della destra per farlo sembrare cattivissimissimo.

Probabilmente c'è una punta di verità in tutte queste spiegazioni, e ce ne sono anche altre che non stiamo ad esporre (qualcosa dovrò pure tralasciarla, altrimenti non finiamo più). Quel che è certo è che il 13 di Gennaio Renzi ha deciso di ritirare la delegazione di Italia Viva dal governo, lanciando la sfida a Conte, che decide di portarla in Parlamento.

Atto III - La parlamentarizzazione della crisi

Senza Italia Viva, il premier deve cercare in parlamento i voti per avere la fiducia. È partita dunque la ricerca dei responsabili o costruttori, come preferiscono chiamarli dagli ambienti vicini a Conte (con un'operazione di reframing semantico da manuale della comunicazione politica).

In questa frenetica ricerca si intrecciano mille storie e mille personaggi. Da figure mitologiche del sottobosco centrista che vengono riesumate dalle loro tombe politiche e corteggiate per portare voti alla maggioranza, come Clemente Mastella e Bruno Tabacci, passando per il seduttore letale Rocco Casalino, che trascorre le giornate a scrivere su Whatsapp a deputati e senatori per portarli dalla parte del premier, fino alla figura potente e misteriosa di Goffredo Bettini, consigliere di Zingaretti sempre più vicino a Conte, al quale sembra aver dato tutto il suo supporto per farlo uscire illeso da questa crisi. E poi mille dinamiche dalle più alte alle più banali: senatori a vita richiamati dall'America per presentarsi in aula a votare la fiducia, Liliana Segre che sfida dall'alto dei suoi novant'anni il coronavirus per essere presente al voto. 

Il 18 di Gennaio Giuseppe Conte si presenta alle camere e, in un discorso lungo 55 minuti, chiude definitivamente la porta a Renzi (con il quale, dice lui, ormai è venuta a mancare una fiducia personale che non è più possibile riconquistare) e apre a chiunque voglia unirsi alla sua maggioranza, usando una serie di parole chiave per far fischiare le orecchie dei destinatari di quegli appelli. Si richiama alle tradizionali culture politiche europeiste: liberale, popolare, socialista. Alla Camera il governo raccoglie la fiducia di 321 deputati, dove la maggioranza assoluta è 316. Ma la vera sfida, e la vera incognita, è per il giorno dopo al Senato. 

Il senatore Lello Ciampolillo (premio miglior nome da cartone Disney 2017), che voterà la fiducia al governo all'ultimo secondo, ritardando di una mezz'oretta la comunicazione sull'esito delle votazioni e causandomi non poco stress.

In Senato Conte ripete il discorso del giorno precedente alla Camera, con qualche piccola modifica qua e là per risultare più seducente nei confronti dei senatori oscillanti. Nel pomeriggio prende la parola Matteo Renzi, che si lancia in un discorso concitato e ben costruito, che ruota attorno al concetto del kairos, il momento opportuno, l'occasione da cogliere in questo tempo straordinario (il Recovery). "Ora o mai più", ripete Renzi a ritmo cadenzato. Conte replicherà stanco e piccato, con la voce graffiata dalla stanchezza e, probabilmente, dal disperato bisogno di un bicchiere d'acqua. Una scena paradossale ha poi luogo durante la votazione, quando due senatori incerti, Ciampolillo e Nencini, votano la fiducia al governo allo scadere del tempo (chissà se gli è stato detto qualcosa in quegli ultimi secondi), e l'annuncio del risultato viene ritardato dal VAR in Senato. Alla fine il governo otterrà la fiducia con 156 voti a favore, 140 contrari e 16 astenuti. Una maggioranza relativa risicatissima, ma abbastanza per sopravvivere. La crisi è stata scongiurata, ma solo per l'astensione di quei 16 senatori del gruppo di Italia Viva, che continua a contemplare la possibilità di far cadere questo governo. In questo momento dunque tutto è appeso ad un filo, e a Conte adesso spetta il compito di trovare persone disposte a costruire con lui una nuova e più coesa maggioranza. 

Quello che succederà nelle prossime settimane è incerto e non è oggetto di questo racconto. Noi ci fermiamo qui, con un governo che sopravvive e annaspa ma non affonda, alla ricerca di una forza e un'unità che sono imperativi per il momento che stiamo attraversando. Dal canto mio, spero vivamente che questa unità la si trovi, perché se c'è una cosa che questa crisi ci ha evidenziato è che quello che stiamo vivendo è davvero un kairos. È il momento di cogliere un'occasione che non tornerà più, è il momento dove si decide il nostro futuro. Le occasioni che l'Italia dovrà cogliere, nei prossimi mesi, determineranno i prossimi vent'anni. Non ci resta che augurarci che le cose vadano per il meglio. Comunque andranno, se vorrete, potremo raccontarle insieme.

Vi ringrazio per aver letto questo articolo e aspetto di sapere le vostre opinioni. Voglio anche ringraziare Chiara, Leonardo e Aurora per le correzioni e i suggerimenti. 

Alla prossima.

- Gaetano Scaduto