mercoledì 20 gennaio 2021

Capire la crisi: racconto autoironico sulle ragioni di questo macello


Cos'è una crisi di governo?

In termini puramente giuridici, si parla di crisi di governo quando un esecutivo rassegna le dimissioni a seguito del mancato ottenimento della fiducia da parte delle camere.

Ciononostante, la tradizionale instabilità dei governi italiani (ne abbiamo avuti 66 in appena 75 anni: nello stesso periodo in Germania ne hanno avuti 26), porta l'idea della crisi di governo ad essere talmente familiare ai cittadini italiani che il solo minacciarla la rende concreta. La reificazione della crisi avviene ben prima che essa abbia effettivamente luogo. Avviene sui giornali che lanciano le notizie, sui tg che aprono tutti i giorni coi servizi politici. La diretta conseguenza è di portare gli attori della politica a ragionare dieci mosse avanti, come gli scacchisti, e rende, in un groviglio inestricabile di dichiarazioni e retroscena, sostanzialmente incomprensibile al cittadino mediamente informato l'esplicarsi di questi processi.

Con questo articolo ho deciso di provare a sbrogliare questa matassa, di cercare di restituire linearità alle convolute dinamiche della crisi. Cercherò di farlo, come sempre quando parlo di politica, mettendo la chiarezza di esposizione davanti alla precisione e la linearità del racconto di fronte alla meticolosità. Non per mancanza di scrupolo, ma perché credo che sia il modo più efficace per cercare di capire, insieme, le cause e le conseguenze, i come e i perché, senza perderci in complicazioni che ha senso esplorare solo quando si ha almeno la comprensione del quadro generale.

Per questo vi invito a verificare indipendentemente ciò che vi racconterò, di modo da potervi fare un'opinione vostra e di ascoltare le mie (perché sì, darò le mie opinioni) con sano spirito critico e, perché no, scetticismo. 

Dove far cominciare, dunque, questo nostro racconto della crisi? Da molto lontano, ricostruendo pian piano la storia di questo governo così da poter evidenziare la catena di eventi che ha portato al punto di rottura.  
Iniziamo quindi da dove cominciano tante altre grandi storie: dal peccato originale

Prologo - Un patto col diavolo

È il 20 di Agosto del 2019 quando Giuseppe Conte, in un discorso al Senato, rompe l'alleanza con la Lega di Matteo Salvini, assieme al quale aveva governato per quindici mesi. 

Si tratta di un intervento potente e aggressivo nei confronti di Salvini, talmente aggressivo da far passare Conte, nello spazio di un discorso, dall'essere l'alleato del leader leghista all'esserne il principale avversario, dall'essere il trait d'union dell'alleanza sovranista all'essere il principale portabandiera dell'antisalvinismo (e dunque dell'antisovranismo).

Giuseppe Conte durante il celebre in Senato contro Salvini

Si tratta di un capovolgimento totale che fa saltare il banco su tutta la linea e rende sussurrabile l'impensabile. Lo sbocco naturale di quella crisi di governo, difatti, sarebbero state le elezioni e la fine anticipata della XVIII legislatura (iniziata nel 2018 e la cui fine naturale è prevista per il 2023), ma quel discorso innesta nella mente di alcuni leader quel pensiero stupendo che porta ad immaginare una soluzione diversa: un'alleanza tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle.

A questo punto, per comprendere bene il contesto, dobbiamo dare un po' di numeri.

Andare al voto significava, stando ai sondaggi dell'epoca, una sicura maggioranza per il centrodestra a trazione salviniana. La Lega in quelle settimane registrava sui sondaggi vette del 37%. Nello stesso tempo il M5S, che era uscito trionfatore con simili percentuali alle elezioni del 2018, vedeva il suo consenso dimezzato, al 17.6%. Dopo un anno e mezzo di governo insieme, i due partiti si erano scambiati le percentuali. Il PD si attestava sul 22%, in crescita rispetto alle elezioni precedenti, rafforzato da un anno e mezzo all'opposizione. Infine, Fratelli d'Italia e Forza Italia si attestavano entrambi intorno al 7%.

Cosa fare, dunque? Andare al voto?

Tutti sembravano volerlo. Lo voleva Matteo Salvini, ovviamente, che sarebbe diventato l'uomo più potente d'Italia coi numeri a sua disposizione. Lo voleva Giorgia Meloni, in forte crescita e pronta a scavalcare Berlusconi come numero due della coalizione di centro-destra. Lo voleva persino Nicola Zingaretti, il segretario del Partito Democratico.

Aspé, Zingaretti? Cioè Zingaretti voleva andare alle elezioni e far vincere Salvini? Ma che stai scherzando?

No, Interlocutore Immaginario usato come espediente retorico, non sto scherzando, ma non saltiamo a conclusioni troppo in fretta.

Nicola Zingaretti e Giuseppe Conte in una foto a caso molto divertente che viene spesso usata per farli passare come cattivi dei fumetti.

Zingaretti era stato eletto segretario del PD nel Giugno del 2018, a seguito della sconfitta elettorale del partito tre mesi prima. Sin da subito il nuovo segretario cercherà di dirigere il PD in maniera radicalmente diversa dal predecessore. Zingaretti però, nella sua azione di ristrutturazione del partito, incontra un problema: i parlamentari che sono stati eletti alle elezioni del 2018 sono stati scelti, in larghissima parte, dal suo predecessore: Matteo Renzi. Tra gli scranni del parlamento, nelle file del Partito Democratico, siedono soprattutto uomini e donne che hanno più in simpatia Renzi che Zingaretti, e questa è una situazione che pesa al segretario, che vede limitata la sua influenza sui gruppi parlamentari e la possibilità di poter condurre un'opposizione ben coordinata. Il segretario vuole riprendere in mano, comprensibilmente, il controllo su deputati e senatori del PD. Riconosciuta la necessità politica e storica, per il Partito Democratico, di trascorrere un periodo all'opposizione che lo porti, in prospettiva, a rafforzarsi, Zingaretti vede il voto come l'alternativa migliore per il futuro del proprio partito. 

Tutti d'accordo quindi? Non proprio tutti. Non vogliono andare a votare i Cinque Stelle, detentori della maggioranza relativa sia alla Camera che al Senato, che stando ai sondaggi vedrebbero dimezzata la loro rappresentanza parlamentare. 

Ma c'è anche qualcun altro che non è entusiasta all'idea delle elezioni: Matteo Renzi. L'ex segretario, che in quei giorni fa ancora parte del PD, non ha intenzione di andare a votare, e non vuole farlo per ragioni esattamente speculari a quelle di Nicola Zingaretti. Se Zingaretti ha dalla sua la maggioranza degli elettori del PD, Renzi ha quella dei parlamentari che è, in questo momento, tutto ciò che gli è rimasto dei tempi ormai lontani in cui il senatore toscano era l'uomo più potente d'Italia.

Così accade che, con tempismo straordinario, proprio mentre il voto sembrava ormai l'esito naturale della crisi, Matteo Renzi e Beppe Grillo aprano all'inverecondo: un'alleanza tra PD e Movimento 5 Stelle. È questo il patto con il diavolo al quale faccio riferimento all'inizio di questo paragrafo. Entrambe le forze politiche rappresentavano all'epoca, per i rispettivi elettorati, sostanzialmente l'anticristo. 

Le parole di Grillo e Renzi sono poche e quasi sussurrate. Sassolini. Due sassolini che però risultano essere abbastanza per mettere in moto una valanga che, coinvolgendo poi altri attori (tra cui Dario Franceschini, azionista della maggioranza silenziosa del PD, e Luigi Di Maio), innescheranno una catena di eventi che porterà alla nascita del Conte II. 

Alessandro Di Battista (M5S) nel preciso istante in cui apprende la notizia che il Movimento andrà al governo col PD

Il patto col Diavolo, dunque. Renzi che apre al governo coi suoi acerrimi avversari, che tante gliene avevano dette nei suoi anni di gloria e ai quali ancora porta rancore per la persecuzione mediatica nei confronti del padre Tiziano. E contemporaneamente i 5 Stelle che devono mandare giù il boccone amarissimo di andare al governo coi nemici giurati: il PDMenoElle, il Partito di Bibbiano e chi più ne ha più ne metta, contro il quale per cinque anni avevano scatenato un'opposizione selvaggia e che poi dal governo avevano tronfiamente bullizzato. Da entrambe le parti il boccone da mandare giù è amaro ma necessario, come gli antibiotici che ci davano da bambini. 

A guadagnarci più di tutti è Giuseppe Conte
, che rimane in piedi, quasi l'unico, dopo la tempesta, in un mondo di governo nuovo e opposto a quello al quale era abituato, con un ruolo inedito, centrale e rinvigorito. Dall'essere il vice dei suoi vice al diventare faro dei progressisti. Ancora una volta, e non sarà l'ultima, Giuseppe Conte si dimostra il Forrest Gump della politica italiana. Un uomo che si ritrova sempre, inspiegabilmente, al posto giusto al momento giusto.

Giuseppe Conte e Rocco Casalino nel primo giorno del Conte II

Atto I - All'inizio del nuovo mondo

Con le scelte politiche bisogna fare i conti. La nascita del governo Conte II avviene sotto la narrazione (più o meno veritiera, spetterà al lettore deciderlo) che quel governo e quell'alleanza siano stati prodotti per scongiurare il rischio di elezioni, che avrebbero avuto come conseguenza la maggioranza più a destra della storia della Repubblica. Una maggioranza che avrebbe non solo governato con numeri sbalorditivi (tali da poter addirittura approvare modifiche alla costituzione), ma anche eletto il successore di Sergio Mattarella. Renzi, più di tutti, rivendica per sé stesso il merito di "non aver lasciato il paese in mano a Salvini", e con lui molti altri esponenti della maggioranza. Tutto ciò tacendo, segreto di Pulcinella, il fatto che fino al giorno prima lo stesso presidente aveva Matteo Salvini come vicepremier.

Poco dopo la nascita del governo, Renzi fa la sua mossa per riacquisire centralità nelle decisioni dell'esecutivo e consuma, dopo dodici anni, il suo divorzio col PD. Si tratta di una separazione che ha grandi connotazioni simboliche. Il PD era il partito che l'aveva prima osteggiato, ai tempi in cui era una scheggia impazzita che era arrivata a diventare sindaco di Firenze lanciando anatemi sui vecchi da rottamare; poi amato quando aveva visto in lui il giovane ed energico leader che l'aveva portato alle vette percentuali più alte della propria storia; e infine additato come causa di tutti i suoi mali, elettorali e non, dopo la sconfitta del 4 Marzo 2018. Il partito del quale per cinque anni, più di chiunque altro, era stato segretario. 

Renzi fonda Italia Viva, un partito personale in piena regola, composto dai suoi fedelissimi, il Giglio magico, e totalmente sotto il suo controllo. Un partito funzionale al suo leader, che trova in esso la propria ragion d'essere ed il proprio fine. Quando li si vede camminare per le strade di Roma, quelli di Italia Viva, sembrano usciti da uno di quei film d'azione in cui il protagonista riunisce una banda di professionisti altolocati per mettere a segno il colpaccio alla banca centrale. Oppure, ancora meglio, viene in mente la scena iniziale del Divo, di Paolo Sorrentino.

Presidente, sta arrivando una brutta corrente...

Passano cinque mesi, il governo va avanti e le vicende politiche ordinarie procedono con lui. Verso la fine di Febbraio, l'Italia si ritrova suo malgrado ad essere uno degli epicentri della più grande ondata pandemica della storia contemporanea. Niente, in politica come altrove, sarà più come prima. 

Tempi duri, quindi, che richiamano decisioni forti e veloci. Tempi complessi, dove ogni avvenimento politico genera conseguenze macroscopiche che riecheggeranno negli anni con le loro implicazioni. Tempi nei quali c'è bisogno di sicurezze, di volti familiari, di scorciatoie cognitive che ci rassicurino nello smarrimento, che diano ordine al caos, che ci offrano una luce in fondo al tunnel. I tempi duri, creano leader forti, o almeno rendono forti, agli occhi di chi ne ha bisogno, i leader del momento. 

Quindi ecco che nei primi mesi della pandemia la popolarità di Giuseppe Conte arriva alle stelle, facendo di lui il personaggio politico in assoluto più popolare del paese. Una grossa rivincita da parte del signor Nessuno che ai tempi del suo primo governo veniva schernito per la sua incapacità di essere protagonista della scena. La pandemia, ha l'effetto di offrire a Conte una possibilità di rivalsa su tutti coloro che lo additavano di essere un leader insipido, incolore e inodore. 

L'emergenza conferisce a Conte una centralità mediatica che nessuno avrebbe osato immaginare. Tutta Italia inizia ad aspettare, nervosamente, le sue conferenze stampa in diretta all'ora di cena. Si pende dalle sue labbra per sapere cosa ne sarà della nostra vita quotidiana, dove è andata a finire e quando tornerà la nostra normalità. E Conte si improvvisa padre e si esibisce davanti a tutta Italia sfoggiando la sua retorica melliflua e ottimista, che può piacere o meno (io stesso sono oscillante su questo tema) ma che resta senza dubbio impressa, complice anche il momento drammatico: "Allontaniamoci oggi per abbracciarci più forte domani". E poi i post su Facebook, i tweet, i discorsi in parlamento. Ovunque e tutti i giorni si parla di Conte.


Conte durante una delle puntate della fiction più seguita d'Italia

Ma oltre alla centralità mediatica, gli conferisce anche una centralità politica e decisionale senza precedenti. Lo strumento legislativo del DPCM (il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) viene usato con cadenza regolare per attuare i provvedimenti legati all'emergenza sanitaria. Si tratta di uno strumento da usare con parsimonia in uno stato democratico, poiché consente al potere esecutivo (il governo) di esercitare un potere legislativo (che spetta al parlamento). Oltre a ciò, Conte nomina il commissario straordinario per l'emergenza e, successivamente, è pronto a nominare uomini di fiducia per gestire i fondi della ricostruzione. Quella che per anni era stata indicata come la sua debolezza, ovvero l'essere esterno ai partiti, inizia a diventare la sua forza: l'indipendenza dalle logiche di partito gli dà la possibilità di agire fuori dai condizionamenti. 

Passa la prima ondata e passa anche la seconda, e la nostra vita ormai si adatta ai ritmi sincopati delle aperture e delle chiusure, in uno stato di emergenza che dà l'idea di tempi così catastrofici e al contempo così normali, dove le strade sono deserte o al massimo popolate da pochi volti resi estranei dalle mascherine, ma in televisione i programmi di varietà e intrattenimento vanno in onda lo stesso. Dove i cinema e i teatri sono e restano chiusi, ma il teatro della politica non smette di intrattenere.

È in questo quadro, circa alla metà di Dicembre del 2020, che avviene quella magica reificazione di cui parlavo in testa a questo articolo. La minaccia velata della crisi apre la crisi. Il sussurro di volerla innescare è esso stesso l'innesco. I giornali e le televisioni iniziano a parlarne e la concretizzano. Il corso degli eventi segue il prevedibile e la politica fa il resto.

Vabè ho capito Gaetà, però ora basta con ste menate intellettualoidi e rispondi all'unica domanda che chi sta leggendo questo articolo vuole che affronti: perché questa crisi di governo?

Hai ragione Interlocutore Immaginario: è arrivato il momento di affrontare questa domanda. 

Atto II - La crisi e i suoi perché

Per rispondere efficacemente sul perché c'è questa crisi di governo sarà necessario aggiungere complessità alla domanda, così da poter cercare insieme di dare una spiegazione che fili in tutti i suoi punti. Quindi, invece di chiederci solamente "Perché c'è la crisi di governo?" sarà necessario chiederci:

- Perché la crisi adesso?
- Per quali cause?
- Per quali fini?
 
Perché la crisi adesso?

Mattarella che mannaggia mancava così poco alla fine del mandato e invece si ritrova in mezzo ad un'altra crisi..

Questa è l'unica domanda alla quale possiamo rispondere senza incertezze. La crisi viene aperta adesso perché oggettivamente questo governo nasce da quel peccato originale, quel patto col diavolo tra Renzi e Grillo di cui parlavamo poco fa, con il quale prima o poi si sarebbero dovuti fare i conti. Non solo. La scissione di Italia Viva dal Partito Democratico si consuma a poche settimane dalla nascita del governo Conte II, e ciò significa che, nel momento in cui sono state assegnate le caselle di governo, i renziani non sono stati considerati come una componente della maggioranza (dando quindi a loro magari un ministero di peso), ma come una corrente interna al PD, alla quale sono stati assegnati giusto due ministeri di secondo piano: l'Agricoltura e la Famiglia. Una crisi, per rimescolare le carte e assolversi dal peccato originale, era quindi già in nuce nell'infanzia di questo governo

Il mondo però si è messo di mezzo, è arrivata la pandemia ad oscurare qualunque manovra politica. Serviva unità nazionale ed era imperativa unità nella maggioranza, per cui la crisi è rimasta lì, nello stato latente, a covare ed attendere il momento adatto per saltar fuori. L'emergenza non è finita, è vero, ma con il piano vaccinale in corso è possibile dire che il peggio è passato. Non solo, questa crisi, se s'ha da fare (e, per quanto abbiamo detto, s'ha da fare) deve avere necessariamente luogo prima di Giugno, in quanto da Luglio in avanti inizia il semestre bianco, ovvero gli ultimi sei mesi dell'attuale Presidente della Repubblica, durante il quale quest'ultimo non ha il potere di sciogliere le camere e mandare il paese al voto. Ciò significa che se Renzi avesse innescato questa crisi a Luglio avrebbe certamente potuto portare alla caduta del governo, ma non avrebbe avuto nel suo arsenale tattico lo spauracchio del voto, che per ragioni costituzionali avrebbe potuto aver luogo solo a Marzo o forse Maggio 2022. Il momento, dunque, non poteva che essere adesso.

Per quali cause?

Renzi presenta la sua controproposta al Recovery di Conte: il piano Cultura, Infrastrutture, Ambiente e Opportunità. Che mattacchione. 

C'è il discorso del peccato originale, certo, ma non basta. Quelle che Renzi e compagni hanno portato come motivazioni per l'innesco della crisi possono o meno essere giudicate pretestuose a seconda della malizia con cui la si veda, ma vale la pena di passare in rassegna i motivi per i quali Matteo Renzi dice di aver innescato la crisi.

C'è anzitutto la questione del protagonismo politico di Giuseppe Conte, protagonismo che si è manifestato soprattutto nella gestione del piano per il Recovery Fund. Il Recovery è il piano Marshall del nostro secolo, si tratta di una quantità di fondi abnorme, destinata a ricostruire in meglio ciò che la pandemia ha distrutto, si tratta di spendere e spendere tantissimo per gettare le fondamenta per la ripresa economica di questo paese nei prossimi venti anni. È un'occasione che non solo non può andare sprecata, ma deve imperativamente essere sfruttata al meglio delle proprie potenzialità. Giuseppe Conte aveva inizialmente pensato, come struttura attuativa del Recovery, ad un impianto gerarchico (alcuni giornali lo chiamavano la piramide) composto da commissari di sua nomina e di sua fiducia. Questa struttura, sintomatica di certe velleità protagonistiche, è stata accantonata, anche a seguito delle proteste di Renzi (e non solo). 

C'è poi la questione dell'allocazione dei fondi del Recovery. La prima bozza del piano difatti prevedeva, tra le altre cose, di destinare solo nove dei 209 miliardi alla sanità. Una cifra che fa storcere il naso, soprattutto se si pensa che questa crisi è stata innescata da una pandemia che, se avesse trovato una sanità più pronta ad affrontarla, sicuramente avrebbe causato una quantità non indifferente di danni e morti in meno. Non dimentichiamo che i vari lockdown, totali o parziali, hanno avuto luogo soprattutto per il fatto che i posti in terapia intensiva in quasi tutte le regioni non erano sufficienti a far fronte all'emergenza. Quindi logica vorrebbe un investimento maggiore nella sanità, che difatti a seguito delle critiche, talvolta feroci, portate avanti anche da Renzi, è avvenuto. Oggi la cifra da destinare alla sanità è 20 miliardi. Meglio, se chiedete a me, ma non abbastanza. 

L'allocazione dei fondi nella prima bozza del recovery fund

Un altro casus belli è il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, un fondo di 36 miliardi di euro (di prestiti) da spendere esclusivamente in Sanità. Attivare o meno il MES è una questione divisiva nella maggioranza, perché avrebbe conseguenze complesse e non facilmente prevedibili, che non starò ad esporre in questa sede. Renzi, però, il MES lo vuole, e tanto. Conte, da parte sua, si mostra timido e cerca di sviare la questione, anche perché tenuto in scacco da un Movimento 5 Stelle schierato categoricamente sul No al MES.

Infine, c'è la questione della delega per i servizi segreti, una funzione che per prassi il presidente del consiglio cede ad un uomo di fiducia, ma che Conte aveva detto, fino all'ultimo, di voler riservare per sé stesso. Questo fatto veniva portato ancora sul piatto come sintomatico dell'eccessivo protagonismo politico del Presidente del Consiglio. Su questo punto Conte cederà solo nel discorso alla Camera del 18 Gennaio.

La questione delle cause dunque è composta da temi sui quali Conte sembrerebbe alla fine sia stato disposto a cedere (in gran parte). Anche all'occhio meno malizioso, dunque, le cause indicate da Renzi non possono bastare come spiegazione del "Perché c'è 'sta crisi?". Possono costituire una parte della risposta, certamente, ma non riescono a soddisfarci. Per cercare quindi questa soddisfazione, dovremo addentrarci nei fini. 

Per quali fini?

Le super sexy "poltrone", il cui irresistibile charme è stato invocato da tutte le parti in causa durante questa crisi, adottando una retorica che, detto francamente, ha proprio stufato. 

Qui, purtroppo, non possiamo avere certezze, ma possiamo esporre alcune ipotesi più o meno supportate dai fatti. 

Vi è anzitutto una lettura psicanalitica, che molti giornalisti tengono a cuore e che sinceramente lascia il tempo che trova, ma che contribuisce a donare una certa caratterizzazione ai nostri personaggi, che di sicuro ci rende, se non meno veritiera, almeno più intrigante questa vicenda. 
Renzi è dipinto come un narcisista con uno smodato bisogno di stare al centro dell'attenzione, bisogno che il suo ruolo di leader di un piccolo partito porta a lasciare inappagato. Il suo sarebbe quindi, secondo questa lettura, un suicidio narcisista, con l'obbiettivo di tornare sotto i riflettori e magari da questo raccogliere qualche consenso. Francamente difficile da credere. 

C'è poi l'ipotesi dell'ultima spiaggia. La fiducia verso Renzi è passata dal 74% al 12% nello spazio degli ultimi sei anni. Dall'essere l'uomo più popolare d'Italia a quello più impopolare. Tutto ciò che gli rimane è il manipolo di fedelissimi che l'hanno seguito in Italia Viva. Diciotto senatori e trenta deputati: pochi, ma abbastanza per pesare e tenere la maggioranza per i proverbiali zebedei. Solo attraverso le manovre parlamentari del suo partito Renzi potrà essere in grado di risalire nei sondaggi (che oggi lo darebbero addirittura fuori dal parlamento). Solo riacquisendo visibilità e potere potrà rendersi titolare di alcune scelte del governo (il MES, certi aspetti della gestione del Recovery, etc) che potrebbero conferirgli, agli occhi dell'opinione pubblica, se non approvazione quantomeno un certo credito. 

Infine, c'è l'ipotesi strategica. Renzi vuole avere un peso materiale nelle decisioni del governo, e si è reso conto che il modo più efficace per avere un peso non è all'interno della maggioranza, bensì in quella linea sottile che separa l'esterno della maggioranza dall'opposizione, in quel sottobosco parlamentare all'interno del quale avvengono i veri rimescolamenti che decidono quali provvedimenti verranno approvati e quali verranno bocciati. Con una maggioranza così sottile come quella che dovrebbe avere Conte in assenza di Italia Viva, i voti di Renzi e compagni risulteranno acqua nel deserto per realizzare qualunque legge. In questa privilegiata posizione, Renzi si troverebbe a trattare, su ogni singolo provvedimento, da una posizione libera e svincolata, che gli permetterebbe di bocciare e rendere virtualmente inottenibile qualunque obiettivo del governo che non riesca ad incontrare il suo assenso, e il tutto senza doverne rendere conto alla maggioranza. 

Visto che l'abbiamo mostrata per Conte, ecco anche per Renzi una di quelle foto che usano i social media manager della destra per farlo sembrare cattivissimissimo.

Probabilmente c'è una punta di verità in tutte queste spiegazioni, e ce ne sono anche altre che non stiamo ad esporre (qualcosa dovrò pure tralasciarla, altrimenti non finiamo più). Quel che è certo è che il 13 di Gennaio Renzi ha deciso di ritirare la delegazione di Italia Viva dal governo, lanciando la sfida a Conte, che decide di portarla in Parlamento.

Atto III - La parlamentarizzazione della crisi

Senza Italia Viva, il premier deve cercare in parlamento i voti per avere la fiducia. È partita dunque la ricerca dei responsabili o costruttori, come preferiscono chiamarli dagli ambienti vicini a Conte (con un'operazione di reframing semantico da manuale della comunicazione politica).

In questa frenetica ricerca si intrecciano mille storie e mille personaggi. Da figure mitologiche del sottobosco centrista che vengono riesumate dalle loro tombe politiche e corteggiate per portare voti alla maggioranza, come Clemente Mastella e Bruno Tabacci, passando per il seduttore letale Rocco Casalino, che trascorre le giornate a scrivere su Whatsapp a deputati e senatori per portarli dalla parte del premier, fino alla figura potente e misteriosa di Goffredo Bettini, consigliere di Zingaretti sempre più vicino a Conte, al quale sembra aver dato tutto il suo supporto per farlo uscire illeso da questa crisi. E poi mille dinamiche dalle più alte alle più banali: senatori a vita richiamati dall'America per presentarsi in aula a votare la fiducia, Liliana Segre che sfida dall'alto dei suoi novant'anni il coronavirus per essere presente al voto. 

Il 18 di Gennaio Giuseppe Conte si presenta alle camere e, in un discorso lungo 55 minuti, chiude definitivamente la porta a Renzi (con il quale, dice lui, ormai è venuta a mancare una fiducia personale che non è più possibile riconquistare) e apre a chiunque voglia unirsi alla sua maggioranza, usando una serie di parole chiave per far fischiare le orecchie dei destinatari di quegli appelli. Si richiama alle tradizionali culture politiche europeiste: liberale, popolare, socialista. Alla Camera il governo raccoglie la fiducia di 321 deputati, dove la maggioranza assoluta è 316. Ma la vera sfida, e la vera incognita, è per il giorno dopo al Senato. 

Il senatore Lello Ciampolillo (premio miglior nome da cartone Disney 2017), che voterà la fiducia al governo all'ultimo secondo, ritardando di una mezz'oretta la comunicazione sull'esito delle votazioni e causandomi non poco stress.

In Senato Conte ripete il discorso del giorno precedente alla Camera, con qualche piccola modifica qua e là per risultare più seducente nei confronti dei senatori oscillanti. Nel pomeriggio prende la parola Matteo Renzi, che si lancia in un discorso concitato e ben costruito, che ruota attorno al concetto del kairos, il momento opportuno, l'occasione da cogliere in questo tempo straordinario (il Recovery). "Ora o mai più", ripete Renzi a ritmo cadenzato. Conte replicherà stanco e piccato, con la voce graffiata dalla stanchezza e, probabilmente, dal disperato bisogno di un bicchiere d'acqua. Una scena paradossale ha poi luogo durante la votazione, quando due senatori incerti, Ciampolillo e Nencini, votano la fiducia al governo allo scadere del tempo (chissà se gli è stato detto qualcosa in quegli ultimi secondi), e l'annuncio del risultato viene ritardato dal VAR in Senato. Alla fine il governo otterrà la fiducia con 156 voti a favore, 140 contrari e 16 astenuti. Una maggioranza relativa risicatissima, ma abbastanza per sopravvivere. La crisi è stata scongiurata, ma solo per l'astensione di quei 16 senatori del gruppo di Italia Viva, che continua a contemplare la possibilità di far cadere questo governo. In questo momento dunque tutto è appeso ad un filo, e a Conte adesso spetta il compito di trovare persone disposte a costruire con lui una nuova e più coesa maggioranza. 

Quello che succederà nelle prossime settimane è incerto e non è oggetto di questo racconto. Noi ci fermiamo qui, con un governo che sopravvive e annaspa ma non affonda, alla ricerca di una forza e un'unità che sono imperativi per il momento che stiamo attraversando. Dal canto mio, spero vivamente che questa unità la si trovi, perché se c'è una cosa che questa crisi ci ha evidenziato è che quello che stiamo vivendo è davvero un kairos. È il momento di cogliere un'occasione che non tornerà più, è il momento dove si decide il nostro futuro. Le occasioni che l'Italia dovrà cogliere, nei prossimi mesi, determineranno i prossimi vent'anni. Non ci resta che augurarci che le cose vadano per il meglio. Comunque andranno, se vorrete, potremo raccontarle insieme.

Vi ringrazio per aver letto questo articolo e aspetto di sapere le vostre opinioni. Voglio anche ringraziare Chiara, Leonardo e Aurora per le correzioni e i suggerimenti. 

Alla prossima.

- Gaetano Scaduto