martedì 31 dicembre 2019

La storia più bella


Disclaimer: questo non è un articolo giornalistico o un testo di propaganda politica. Non sono un giornalista e non sono affiliato ad alcun partito e/o associazione. Non pretendo di rappresentare la realtà oggettiva nella sua completezza e il mio scopo non è influenzare l'opinione di chi mi leggerà. Questo articolo è la risposta ad un unico e preciso imperativo morale: quello che impone, ad ogni uomo che abbia il privilegio di essere testimone di una grande storia, di raccontare questa storia e di farlo nel modo migliore possibile. 

Nella vita la bellezza non si coglie gratis. L'arte non è bella in sé, ma deve essere colta da un animo educato alla bellezza. Lo so bene io che sono totalmente insensibile alla maggior parte delle arti figurative. Lo stesso vale per la musica: non riuscirò mai ad apprezzare Beethoven tanto quanto il direttore d'orchestra della Sinfonica di Vienna. E non proviamo nemmeno a parlare della bellezza nelle scienze, che dopo tre anni di studi matematici ancora, la maggior parte delle volte, non riesco a decifrare. Tutto questo preambolo mi serve per introdurre la seguente sezione dedicata a chi non si è mai approcciato alla politica americana. Si tratta di qualche nozione di base per essere in grado di seguire il racconto. Strumenti, insomma, per cogliere la bellezza. Se avete già familiarità con questo sistema politico, saltate pure il prossimo paragrafo.

Gli Stati Uniti sono una repubblica federale composta da cinquanta stati. Il presidente, capo dell'esecutivo, viene eletto ogni quattro anni, a suffragio universale. L'elezione del presidente avviene attraverso un sistema contorto. Ogni stato assegna un numero di grandi elettori più o meno proporzionale alla propria popolazione. Il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti (all'interno di uno stato) si aggiudica tutti i grandi elettori messi in palio da quello stato secondo la formula del Winner Takes All, e porterà nell'assemblea grandi elettori a lui favorevoli. I grandi elettori, qualche settimana dopo il voto, si riuniscono in assemblea e formalizzano l'elezione del presidente. Il parlamento è formato da due rami: una camera bassa, il Congresso, e una camera alta, il Senato. Ogni deputato del congresso è eletto in una circoscrizione. Tutte le circoscrizioni hanno grossomodo la stessa popolazione complessiva, circa 700.000 persone. In totale, il congresso è composto 435 deputati. Il Senato è composto da cento senatori, due per stato, indipendentemente dalla popolazione dello stato.
Lo spettro politico è diviso in due partiti: il partito democratico, un partito di centro-sinistra e il partito Repubblicano, un partito di centro-destra. La divisione bipolare dello spettro politico porta ad una divisione ideologica molto marcata all'interno dei partiti.
Entrambi i partiti ogni quattro anni portano avanti un processo politico, le Primarie, che porta ad individuare un candidato unico che rappresenterà il partito durante le elezioni presidenziali. Le primarie si svolgono grossomodo nell'arco di circa quattro mesi, da febbraio a giugno, nel corso dei quali man mano nei vari stati si tengono delle elezioni tra i candidati che si presentano alle primarie del partito per eleggere dei delegati (questa volta, specialmente per il partito democratico, assegnati in maniera proporzionale rispetto ai voti) che andranno a votare il candidato presidente nella Convention del partito, un'assemblea che si tiene tradizionalmente nel mese di Luglio con il compito di investire il vincitore delle primarie con il titolo di candidato presidente per il partito in questione.

Boom. Queste sono le regole del gioco. Grazie per esser rimasti con me. Prometto che il peggio è passato e che farò del mio meglio per mantenere al minimo le astrusità in politichese. Adesso siamo davvero pronti ad iniziare la nostra storia.





    
Un uomo viene trascinato via dalla polizia di Washington DC. Per portarlo via lo sollevano dal terreno. Lui ride. Felice.

Ricordo bene il mio primo incontro con Bernie Sanders. Era l'inizio di un tremendo Marzo del 2016, non il migliore dei periodi della mia vita. Un amico lontano, grande appassionato di politica americana, scrive su una chat di gruppo cercando di fare interessare qualcuno all'argomento, così da poter avere compagnia nel seguire quella che si prospettava essere una stagione politica densissima.

Erano da poco iniziate le primarie dei partiti Democratico e Repubblicano che avrebbero portato ad incoronare Hillary Clinton e Donald Trump, i quali si sarebbero fronteggiati per occupare il posto che per otto anni era stato di Barack Obama. Ed è proprio lì, in quei mesi, che si può trovare un'ottima chiave di lettura per interpretare tutto quello che è successo di veramente grosso nella politica mondiale in questi anni.

All'inizio dei miei diciassette anni la politica non mi era mai interessata granché. In famiglia non se ne parlava molto, in classe nemmeno e tra gli amici neanche l'ombra; ma nella sovrabbondanza di tempo libero che solo l'adolescenza mi ha saputo regalare, decido di dare una chance a questo stimolo che l'amico lontano mi aveva propinato. Se non altro, avrei occupato il pomeriggio.

E lì venni folgorato. Totalmente travolto dal carisma di un uomo che, credo non sia esagerato dirlo, mi ha cambiato la vita.

Ma facciamo un passo indietro.

CAPITOLO I - UNA NUOVA SPERANZA

Bernie Sanders nasce l'otto settembre del 1941 a Brooklyn, New York, figlio di un immigrato ebreo polacco scappato da una Polonia prossima a conoscere l'orrore dell'Olocausto. La famiglia di Bernie appartiene al ceto medio-basso: suo padre si guadagna da vivere come imbianchino mentre sua madre non lavora. Quando parla della sua infanzia, Bernie la ricorda con dolcezza: "non mi è mai mancato il cibo sul piatto". Ma non manca mai di ricordare lo stress che attanagliava tutta la sua famiglia quando si dovevano affrontare delle spese. Nell'America degli anni quaranta il ceto medio sopravvive, ma Bernie incontra presto l'ansia che la mancanza di una stabilità economica può causare.

Bernie Sanders letteralmente incatenato ad una donna di colore durante una protesta per i diritti civili. Il messaggio è chiaro: "portate via lei, dovrete portare via anche me". Le forze dell'ordine lo prendono alla lettera. Passerà una notte in galera.

Si iscrive a scienze politiche a Chicago. Si laurea, non con ottimi voti, nel 1964. Sulla sua carriera accademica Bernie dirà che era uno studente mediocre, e che ha sempre preferito la politica attiva allo studio teorico. Quelli sono infatti anche gli anni delle grandi proteste studentesche, a partire da quelle contro la segregazione razziale, della quale si farà alfiere, continuando con quelle contro la guerra in Vietnam. Bernie agisce attivamente in quegli anni. Molto sensibile alle istanze della comunità afroamericana, denuncia le discriminazioni razziali in vari modi. Un aneddoto che mi è rimasto impresso è il seguente: il futuro senatore si metteva d'accordo con alcuni ragazzi di colore che andavano in giro a vedere delle case in affitto. A questa gente veniva dato un certo prezzo per l'affitto. Qualche giorno dopo si presentava lui, con appresso tutta la sua palese caucasicità, e gli veniva dato un prezzo più basso. Lui riportava ciò che gli veniva detto e si provvedeva a denunciare la discriminazione.
Negli anni seguenti la sua attività politica ricopre un ruolo marginale nella scena americana. Si affilia a organizzazioni semisconosciute alla sinistra del partito democratico e le vittorie elettorali, all'epoca come oggi, sono fuori discussione per quelle formazioni politiche. Bernie si limiterà a guidare una serie di campagne di protesta che non andranno mai oltre la singola cifra percentuale.  È però in quegli anni che Sanders delinea e raffina la propria visione politica. Ed è in quegli anni che va affezionandosi a tutta una serie di cause estremamente radicali, qualcuno direbbe addirittura folli: questo pazzo osa denunciare frodi bancarie ai danni dei risparmiatori, alza la voce contro la diminuzione del potere dei sindacati, combatte disuguaglianze, razzismo, si appassiona a cause ambientaliste. In quel periodo della sua vita, in buona sostanza, definisce una dottrina politica alla quale resterà fedele per cinquant'anni. Osa addirittura sostenere, in tempi remoti, i diritti della comunità LGBTQ. Nel frattempo, per mantenersi, passa da un lavoro all'altro: carpentiere, giornalista, produttore di documentari istruttivi per le scuole elementari e altri lavoretti saltuari qua e là.


Bernie Sanders durante un comizio per la sua campagna elettorale a governatore del Vermont. Durante gli anni settanta, il futuro senatore condurrà un serie di campagne di protesta all'interno di alcuni partiti minori, non arrivando mai a raccogliere più del 6% dei consensi.

Il 1981 è l'anno in cui prende l'abbrivio la sua carriera politica vera e propria. Viene eletto sindaco di Burlington, una cittadina che all'epoca conta circa 35.000 abitanti, con appena dieci voti di scarto.  Sostanzialmente un bug del sistema. Un errore. Una variabile impazzita il cui effetto i calcolatori delle macchine politico-amministrative del partito Democratico e Repubblicano non erano riuscite a calcolare. Escono articoli su testate nazionali in merito a questa elezione che ha turbato la tranquillità del mesto Vermont. Nell'america di Raegan e in piena guerra fredda, un socialista diventa sindaco. Nessuno capisce come sia potuto succedere. Quei dieci voti cambieranno per sempre il volto dell'America. 

Bernie Sanders presta giuramento per diventare sindaco di Burlington,Vt nel 1981

Nei primi quattro anni della sua amministrazione Bernie imparerà quanto sia difficile fare tabula rasa di un establishment politico profondamente radicato come quello del Vermont conservatore degli anni ottanta. Sebbene eletto sindaco, infatti, si trova a dover fare i conti con un consiglio comunale  in maggioranza a lui ostile. È in questo contesto che affina le tattiche politiche che lo porteranno a costruire un'intera carriera sull'opposizione al potere costituito. E dopo i primi anni nei quali la sua attività di sindaco viene paralizzata dai suoi oppositori, nel 1983 vince nuovamente le elezioni, questa volta con una solida maggioranza. Finalmente anche gli uomini a lui fedeli iniziano a scalare le gerarchie amministrative. La macchina comunale, una volta totalmente a lui invisa, diventa negli anni più familiare, permettendogli di portare avanti politiche coerenti con la sua visione della società. Bernie crea a Burlington una nuova fazione fedele non al partito Democratico o a quello Repubblicano, ma alla sua idea di politica. Ancora oggi, a trent'anni di distanza, Burlington, una volta una città mediamente conservatrice di uno stato mediamente conservatore, è un nucleo progressista in uno stato progressista. E ciò è inequivocabilmente legato all'inarrestabile attività politica di Bernie Sanders. 


Bernie Sandes dopo la prima elezione a sindaco di Burlington. Verrà poi rieletto altre tre volte, nel 1983, nel 1985 e nel 1987, sconfiggendo addirittura un candidato appoggiato unitariamente sia dal partito democratico che da quello repubblicano.

Nel 1991 Bernie Sanders viene eletto al congresso, dove rimarrà fino al 2007. In quegli anni, con la grinta del rivoluzionario e gli occhiali del craxiano, si farà ancora una volta promotore delle istanze più radicali. Opposizione alla libera circolazione della armi da fuoco, opposizione alla guerra in Iraq e la sempreverde proposta di riforma sanitaria sono solo alcuni dei temi di cui si occuperà nel quindicennio al Congresso. Non si pensi però che l'opposizione radicale sia l'unica via attraverso la quale il futuro candidato presidente articola la propria attività politica in quegli anni: lo spirito pragmatico e la capacità di portare a casa risultati concreti gli valgono in quegli anni il soprannome di The Amendment King, il re degli emendamenti. Nel 2007 poi Bernie viene eletto al Senato, che negli Stati Uniti, è bene ricordarlo, è un organo molto più potente di quanto non lo sia il corrispettivo italiano. Sono gli anni in cui incomincia ad essere conosciuto sul territorio nazionale, sia per le sue posizioni eterodosse, sia per la sua attiva continuità nel non scendere a compromessi con ciò che la sua morale gli indica come ripugnante. 

CAPITOLO II - L'IMPERO COLPISCE ANCORA


Bernie Sanders annuncia la sua candidatura a presidente degli Stati Uniti d'America. Aprile 2015.

Il trenta di Aprile del 2015 Bernie Sanders esce dall'aula del Senato per annunciare, un po' nell'indifferenza generale, che si candida a diventare l'uomo più potente del mondo. L'annuncio viene da un palco improvvisato, montato sul prato davanti al Senato, circondato da una manciata di giornalisti. Il senatore ha l'aria stanca e lo sguardo schifato. Di lui i suoi colleghi senatori ne hanno tracciato, negli anni, un ritratto infelice: burbero e scorbutico, con la tendenza ad innervosirsi ed alzare la voce appena qualcosa non gli va a genio, come ogni vecchio rompicoglioni che si rispetti (del quale, tra l'altro, il senatore ne tradisce l'estetica). Non accenna a sorridere per minuti e minuti, ma sciorina un elenco infinito di cose che non vanno bene in America, il tutto con quel marcatissimo e pittoresco accento di Brooklyn che non l'ha mai abbandonato, nonostante non viva più lì da quarant'anni. Un po' come certi pugliesi fuori sede che possono anche vivere per mezzo secolo a Milano, ma con le vocali non avranno mai un buon rapporto. Il senatore mantiene quello sguardo corrucciato per tutto il tempo, fino a quando un giornalista, nel porgli una domanda, non cita suo fratello Larry. Lì, nonostante tutto, Bernie non riesce a non tradire un sorriso. Ma per il resto l'immagine che rimane è quella di un volto disgustato: non esattamente la fotografia ideale da dare in pasto ai media. Dopo nemmeno dieci minuti il senatore scappa e rientra in aula,: "Thank you very much. I gotta get back to vote".

Le prime rilevazioni sondaggistiche lo danno al quattro percento. Il quadro nel quale ci troviamo, quello delle primarie democratiche, è in quei mesi dominato da una figura politica potentissima: Hillary Rodham Clinton.
Ex first lady, ex senatrice, ex segretario di stato ed ex contendente per la nomination del partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti. È stata definita "la persona più qualificata che abbia mai corso per la presidenza", ed in parte è vero. È una delle persone più potenti del mondo, e sostanzialmente controlla senza troppe insubordinazioni la stragrande maggioranza del partito democratico.
È finalmente arrivato il suo momento. Lo aspettava da una vita.

Da sempre impegnata in politica, ha lasciato un segno nella vita pubblica americana sin da giovanissima, partecipando alle inchieste sul Watergate negli anni settanta in qualità di avvocato. Diventa poi una paladina del progressismo negli anni novanta quando, da first Lady, tentò, senza successo, di far passare una riforma sanitaria che avrebbe tentato di aggiustare quel disastro umanitario che è la sanità negli Stati Uniti.


All'inizio degli anni '90 Hillary Clinton si fece sponsor di una riforma sanitaria che non vide mai la luce per l'opposizione del partito Repubblicano. A sostenerla c'era un oscuro congressman del Vermont: Bernie Sanders, l'uomo nell'ombra.

La presidenza del marito Bill termina nel 2001, e l'ex first Lady non resta con le mani in mano, divenendo senatrice per lo stato di New York nello stesso anno, carica che ricoprirà fino al 2009. E poi nel duemilaotto, finalmente, si candida alle primarie democratiche. Doveva essere il suo momento: dopo otto anni segnati dalla disastrosa presidenza di George W. Bush in America c'era aria di cambiamento, e lei voleva essere quel cambiamento. E invece, dal nulla, un giovane senatore dell'Illinois, con ancora il volto luminoso. i capelli neri e l'espressione da ragazzino, compie un miracolo politico e le strappa la nomination all'ultimo. Si sta parlando, ovviamente, di Barack Obama. Oltre al danno, la beffa: lei aveva vinto il voto popolare, aveva ricevuto più voti, ma il contorto sistema attraverso il quale si svolgono le primarie non le ha comunque permesso di prevalere. Otto anni passano, e nel duemilaesedici Hillary è pronta a prendersi finalmente quello che lei sente che le spetta da sempre. È più forte di prima, venendo da quattro anni in cui ha occupato la carica di segretario di stato (il corrispettivo, più o meno, del nostro ministro degli esteri) e grazie ai quali può vantare addirittura il merito della cattura del nemico pubblico numero uno: Osama Bin Laden. L'unico uomo che potrebbe essere un serio contendente per la nomination è Joe Biden, il vicepresidente di Obama. Non solo sarebbe un serio contendente, ma sarebbe proprio il favorito. Il vicepresidente è tradizionalmente il candidato naturale a succedere il presidente: è il successore designato. Ma Joe Biden nel duemilaquindici subisce un tremendo lutto, perdendo il figlio quarantaseienne per un cancro al cervello. Biden è fuori dai giochi, almeno per ora. Hillary Clinton ha la strada spianata. Nel 2016 l'ex First Lady non è più quella degli anni '90. Trent'anni passati nelle stanze più alte del potere cambierebbero chiunque, e una manciata di persone nel mondo possono dire di conoscere il potere tanto da vicino quanto lei. Gli anni della ruggente paladina progressista hanno lasciato spazio a quelli della cinica calcolatrice. I rapporti intessuti negli anni con le élite economico-finanziarie e la rete solidissima di fedeli che le permette di avere un controllo fermo e tentacolare su tutto il partito democratico sono i suoi punti di forza. La sua politica si propone in un asse di continuità con quella di Barack Obama, ma le manca l'effetto bulldozer che la campagna del presidente uscente era riuscita ad innescare anni prima.

Barack Obama con Hillary Clinton alla convention democratica del 2016.

Mi piace immaginare Hillary Clinton come una figura tragica, la rappresentazione vivente di come solo un cinico pragmatismo possa sopravvivere all'idealismo quando quest'ultimo soccombe alla durezza della realtà. E Hillary nel duemilasedici non è più la paladina dei progressisti degli anni novanta, e non combatte più per la riforma sanitaria, ma anzi le combatte contro. E non ha più uomini da battere né rivoluzioni da portare a termine, ma è lei la donna da battere, ed è lei il regime insovvertibile. È lei ad avere il potere e ad avere tutta l'intenzione di usarlo, con la spregiudicatezza che solo una vita da numero due può donarti.

Non credo che Hillary Clinton sia una figura malvagia. Non la conosco personalmente, e mi piace pensare che la maggior parte delle persone in questo mondo agisca con l'obbiettivo di fare del bene. Quello che credo è che Hillary sia dovuta negli anni scendere a patti con la propria realtà e con la propria incapacità di cambiare il sistema dall'esterno. Ha acquisito la consapevolezza, negli anni, che l'unico modo per riuscire a cambiare qualcosa è farlo a poco a poco, da dentro, smussando gli angoli delle questioni anno dopo anno. In sostanza, non credo che Hillary Clinton sia malvagia. Credo sia una disillusa.

Ma non ditelo al me del 2016. Vi mangerebbe.

Hillary Clinton e Bernie Sanders sullo stage di uno dei dibattiti durante le primarie del 2016. Notare la classica posa di Bernie col pugno alzato. Il pugno è, per evitare malintesi, sempre il destro. 

Torniamo a Bernie Sanders.

Le prime rilevazioni sondaggistiche, dicevamo, lo danno al quattro percento, contro una intoccabile Hillary che viaggia attorno al trentacinque percento dei consensi. Ci sono anche altri candidati, ma sono dei signori nessuno. Bernie non è particolarmente conosciuto. La maggior parte della gente sa solo che è uno degli unici due indipendenti presenti nel Senato americano e che la sua indipendenza è dovuta al fatto che si afferma su posizioni ben più progressiste rispetto alle posizioni classiche del partito Democratico. È un po' la trasposizione nelle aule del potere di quella controcultura studentesca che vive nei college e nelle strade delle grandi città, che guarda i film di Micheal Moore, legge Noam Chomsky e Naomi Klein, e guarda ai vicini canadesi come ad un esempio da seguire, piuttosto che come ad un concorrente da battere. Questa è l'immagine che si ha in partenza di lui. La sua campagna elettorale si premura subito di chiarire il suo messaggio politico cercando di dribblare quell'atteggiamento di assoluto sospetto che buona parte dell'opinione pubblica riserva a chiunque cerchi spazio più a sinistra del dovuto. In sostanza, c'è bisogno di scrollarsi via l'etichetta del comunista.

Bernie e la moglie durante un comizio nel 2016

Bernie si presenta al pubblico americano come un socialista democratico, ma di fatto è un socialdemocratico. Ben lungi da derive bolsceviche, il Senatore si pone in opposizione al capitalismo laddove il capitalismo mostra il suo volto più fragile. Gli esempi da seguire per lui non sono Cuba, il Venezuela o la Russia sovietica (come molti oppositori vorrebbero far credere), bensì le democrazie scandinave: la Finlandia, la Svezia e soprattutto la Danimarca. Modelli che il Senatore si sforza di proporre al grande pubblico in contrapposizione al capitalismo senza se e senza ma del quale gli Stati Uniti si fanno bandiera da ormai più di mezzo secolo. Il motto della sua campagna elettorale è "A Future To Believe In". La sua idea di futuro è quella di uno stato che si prenda cura dei propri cittadini attraverso il welfare: una collettività in grado di auto-tutelarsi. In America,politiche come queste sono ormai ben obsolete. Bernie guarda molto indietro, a uno dei più grandi presidenti che l'America abbia offerto alla storia, Franklin Delano Roosevelt, e da lui riprende e ripropone, declinato al presente, il celebre piano infrastrutturale, il New Deal. Ma a questi modelli (l'america di Roosevelt e le democrazie scandinave) Bernie aggiunge una retorica dirompente e rivoluzionaria, con dei nemici precisi che prendono le sembianze di Wall Street e del  "Top 1%", ovvero l'uno percento più facoltoso della popolazione.
E questa retorica non tarda a fare eco. Lo sguardo di Bernie Sanders sullo stato delle cose inizia ad aprire gli occhi di una fetta della popolazione americana. Il disegno che il Senatore traccia di questa società è impietoso e questo conferisce una forza rara al suo messaggio. Nei sondaggi inizierà inesorabilmente a crescere grazie a questa visione che diffonde instancabilmente, comizio dopo comizio, settimana dopo settimana. La società americana inizia ad essere infettata da un virus, e gli elettori vengono stregati da questa visione. Un brusco risveglio come quello di Neo all'inizio di Matrix. Vediamo meglio di cosa si tratta.


Bernie Sanders il 25 Marzo del 2016, durante un evento oceanico a Portland,Oregon. Un uccellino si posò sul podio durante il suo discorso e rimase lì per diversi secondi, immobile. La folla esplose. I più esaltati lo videro come un endorsement di madre natura a Bernie Sanders. Io lo vidi solo come una scena di una dolcezza unica. 

Negli Stati Uniti tre persone possiedono più ricchezza delle centosessanta milioni più povere, il cinquanta percento della popolazione. Lo 0.1% più ricco della popolazione possiede più ricchezza del 92% più povero. Per metterla sotto altri termini, le 372000 persone più ricche (più o meno gli abitanti di Firenze) posseggono più ricchezza dei 301000000 di individui più poveri (Italia, Francia, Regno Unito, Germania, Portogallo, Svezia e Austria messe assieme). Se leggete questi dati per la prima volta e non vi siete scandalizzati nell'apprenderli vi porgo i miei più sinceri complimenti, perché io ancora oggi, dopo anni, resto basito al pensiero che così poche persone possano accumulare una ricchezza tanto abominevole senza che nessuno si metta di mezzo nel processo. Il sogno americano è una puttanata in un mondo in cui a spaccarsi la schiena tutta la vita si guadagna, se va bene, l'ammontare che certi altri guadagnano in un'ora. Lungi da me dire che tutti dovrebbero guadagnare uguale e che ad un "merito" maggiore non debbano corrispondere guadagni maggiori. Sacrosanto. Ma bisogna essere in grado di aprire gli occhi sulla malattia di una società che non pone alcun limite alla disparità tra i suoi membri. L'ultima giustificazione dei difensori di questo sistema è la tanto decantata meritocrazia, che però lascia il tempo che trova davanti al fatto che il sessanta percento della ricchezza presente negli Stati Uniti è ereditata, che per avere un'istruzione di qualità ci si debba accollare un mutuo ventennale e che la maggior parte dei settori produttivi siano rigidamente controllati da oligopoli intoccabili.

Ma questa abominevole disparità di ricchezza non sarebbe poi un problema così grande in una nazione che garantisce ai cittadini la possibilità di vivere dignitosamente la loro vita a prescindere dalla condizione sociale. Ma gli Stati Uniti, è sotto gli occhi di tutti, non sono una nazione per poveri. Non sono una nazione per la classe media. E forse, non sono proprio una nazione per non ricchi. La sanità pubblica non esiste. Esistono, ad onor del vero, dei programmi governativi (Medicare e Medicaid) che garantiscono la copertura ai poverissimi, ai veterani di guerra e agli anziani, ma questi programmi continuano comunque a lasciare scoperta una più che sostanziale fetta della popolazione americana. In mano ai privati la gente è costretta quotidianamente alla scelta tra il denaro e la salute. Ogni anno cinquecentomila persone vanno in bancarotta a causa delle spese collegate alla sanità. E tutto questo succede in una nazione in cui il tasso di disoccupazione sta sotto al quattro percento (in Italia stiamo al dieci percento). Ciò significa che anche se hai un lavoro (o due, o tre) questo non ti permette di avere la sicurezza di non dover dichiarare la bancarotta nel caso ti venga un cancro. Oltre al danno, la beffa. Quarantamila persone ogni anno muoiono perché non sono in grado di pagarsi le cure mediche. I prezzi dei farmaci sono completamente fuori controllo. L'insulina in America costa trecento euro a fiala. È il settimo liquido più costoso al mondo. E non proviamo nemmeno ad entrare nel merito di quanto possa costare un'operazione chirurgica. La situazione è disastrosa.


Un'immagine dalla campagna di Bernie 2020 (la fonte da cui sono presi i dati è la BBC), che mostra quali sono i liquidi più costosi al mondo. Trova l'instruso.


Non esiste una parte politica che risponda agli interessi delle classi sociali meno elevate, e per un semplice fatto: non esiste il finanziamento pubblico. I partiti e i singoli candidati finanziano le loro attività politiche attraverso donazioni private, che non hanno virtualmente alcun limite. Chiaramente chi dona cifre sostanziose ad un candidato molto spesso non lo fa per puro idealismo o spirito civico, ma per indirizzare quest'ultimo a tenere a cuore uno specifico interesse. Ecco dunque che se si va ad esaminare nel dettaglio le schiere di donatori che finanziano buona parte dei rappresentanti eletti nelle fila del partito Democratico e Repubblicano si trovano lobby delle armi (la celebre NRA), del petrolio, del tabacco e della sanità. E queste lobby portano avanti delle istanze alle quali i rappresentanti eletti dovranno dar conto. Va da sé che, senza il bisogno di pensar male, nella migliore delle ipotesi non resti a questi ultimi il tempo o il capitale politico per portare avanti anche gli interessi degli elettori che non hanno la stessa possibilità di effettuare donazioni.

Disuguaglianze, sanità e sistema dei finanziamenti elettorali.  Sono questi tre i principali temi che differenziano Bernie Sanders da chiunque altro durante quella stagione elettorale. Ovviamente non manca l'attenzione per tutta una serie di altri argomenti: dal riscaldamento globale al costo dell'istruzione, dalla questione dell'immigrazione alla politica estera e se potessi (ma soprattutto se tu, caro lettore, ne avessi voglia) ne parlerei per ore. Ma su quei temi, alla fine, sono tutti (nel partito democratico) più o meno d'accordo sulla sostanza, e le differenze emergono più che altro nei modi. Fa eccezione in questo elenco la politica estera, dove Sanders si pone su posizioni tendenzialmente pacifiste e isolazioniste, ma sono opinioni che comunque vengono condivise da una buona fetta della popolazione americana già prima che il terremoto Sanders ne avesse scosso la visione del mondo.

Il quadro dell'America che esce dalla narrazione Sandersiana è dunque impietoso, ma la retorica dell'anziano senatore non si ferma alla pars destruens. Bernie propone ed auspica una "political revolution" che sia in grado, attraverso una partecipazione elettorale e politica senza precedenti, di dargli il potere di cambiare completamente la rotta su questi temi. Distruggere il monopolio delle compagnie delle assicurazioni sanitarie mettendo in atto la riforma del Medicare For All (una assicurazione unica statale). Tassare le classi più agiate con una tassa progressiva che dia modo di collezionare le risorse sufficienti a redistribuire la ricchezza sotto forma di servizi al cittadino. Ribaltare la sentenza della corte suprema (massimo organo giudiziario americano, di nomina politica) che sancisce il diritto senza limiti alle donazioni private ai politici. Queste, e tante altre, le sue proposte.


Bernie Sanders con la moglie Jane durante un comizio nel 2016. Jane, seconda moglie del senatore, è da sempre la sua consigliera più fidata. Ricopre da vent'anni ruoli apicali in tutte le sue campagne elettorali.


Ma la narrazione che ha donato una forza senza precedenti alla politica di Bernie Sanders sfugge anche al suo controllo. All'inizio della sua candidatura nel duemilaquindici nessuno, davvero nessuno, prendeva sul serio la candidatura di un uomo che negli Stati Uniti osava definirsi esplicitamente socialista (nonostante la definizione non combaci propriamente con la sua linea politica). L'ultimo a compiere un affronto del genere era stato, più di un secolo prima, Eugene Debs. un attivista socialista che passerà anche tanti anni in galera a causa delle sue idee. Nessuno crede davvero in Bernie Sanders. Nemmeno lui, credo, pensava di poter ambire davvero alla nomination. Credo che nel duemilaquindici il suo obbiettivo fosse principalmente quello di portare l'attenzione su tutta una serie di tematiche, quelle prima elencate, che il partito Democratico ignorava o trattava marginalmente in quegli anni. Tutto l'establishment democratico gli era, ed è davvero un forte eufemismo, ostile. Nessun volto noto del partito ha sostenuto la sua candidatura. Nemmeno i senatori a lui politicamente più prossimi, come Elizabeth Warren e Sherrod Brown, hanno osato mettersi contro la macchina da guerra clintoniana. All'interno dell'ala progressista del partito democratico chi tacque fu sostanzialmente complice della sua sconfitta. E tacquero tutti.

Ma nonostante questo, una valanga si preparava ad arrivare. La forza comunicativa di quella campagna elettorale stava in un ingrediente semplice quanto efficace: la coerenza. In America, come dicevo prima, non esiste il finanziamento pubblico ai partiti. Le campagne elettorali devono dunque raccogliere donazioni, piccole, medie o grandi, per poter andare avanti.
Dato che stava portando avanti una campagna contro i flussi di denaro incontrollati in politica, il Senatore decide di non accettare donazioni multimilionarie per la sua campagna. Non che ce ne fossero molti di milionari disposti a donare a Bernie Sanders. E dunque la sua campagna fa bandiera del finanziarsi solo attraverso piccole e medie donazioni, dell'ammontare che tutti, ma proprio tutti, possono permettersi. La donazione media fatta alla sua campagna nel 2016 è di ventisette dollari (nel 2019 seguirà la stessa formula, ma arriverà addirittura ad una media di diciotto dollari). Una cifra irrisoria se si pensa che nello stesso momento la sua avversaria alle primarie accettava donazioni da qualunque frangia del mondo corporativista, che non sa nemmeno cosa ci si compri con ventisette dollari.
Ma questa rete di piccole donazioni cresce mese dopo mese, portando quella di Bernie Sanders a diventare una delle campagne più partecipate della storia in termini di donazioni singole. Per darvi un'idea, nel momento in cui sto scrivendo, la sua campagna del 2020 ha ricevuto più di cinque milioni di singole donazioni.

Bernie Sanders durante "The Speech": un discorso durato otto ore e mezza che ha tenuto nel 2010 in opposizione a degli sgravi fiscali per ultramilionari. Questo discorso contribuì a rendere noto il senatore al grande pubblico, e in esso si trovano sostanzialmente tutti i punti attorno cui ruoteranno le sue due campagne elettorali. Se ne avete il coraggio, si trova in versione integrale su YouTube.


Mi rendo conto che senza un contesto questi numeri lascino il tempo che trovano. Ma per darvi un'idea provate a pensare che ad un certo punto della campagna, Hillary Clinton ha ricevuto una donazione di 43 milioni di dollari da parte di sole sei persone. Più di sette milioni a testa. Ora, provate ad immaginare le proporzioni di questo sistema. Non è difficile, nemmeno per l'occhio meno malizioso, arrivare alla conclusione che un sistema di finanziamento elettorale di questo tipo porta avanti gli interessi di coloro che ci mettono sette milioni, non di chi ci mette 27 dollari.

E oltre alle donazioni, dobbiamo metterci anche i volontari. In America è comune, per i candidati, appoggiarsi ad una rete di volontari: elettori entusiasti delle politiche proposte del candidato in questione che svolgono una serie di compiti (dalla campagna elettorale porta a porta all'organizzazione di eventi, passando per volantinaggio e comizi) per aiutare il proprio beniamino/a a prevalere nella competizione. Inutile dire come l'entusiasmo generato dalla campagna di Bernie quell'anno abbia portato al formarsi di una mastodontica rete di volontari. Non ho trovato dati precisi in merito al 2016 (la maggior parte delle fonti restano sul generico "centinaia di migliaia"), ma per darvi un'idea delle proporzioni vi basti sapere che il giorno dell'annuncio della sua campagna del 2019 un milione di persone  (un MILIONE) si sono registrate come volontari presso la sua campagna elettorale. Immaginate cosa vuol dire essere capace di convincere un milione di persone a lavorare gratis per voi per più di un anno. Immaginate quanto entusiasmo bisogna essere in grado di generare nella gente per ottenere un risultato del genere. Provate a ricordare l'ultima volta che vi siete appassionati ad una causa, una qualunque causa, e chiedetevi se avreste lavorato gratis per sostenerla. Solo quando la passione brucia davvero si può arrivare a sacrificare il proprio tempo e le proprie energie a sostegno di una causa senza nessun ritorno materiale. Vi auguro di trovare sempre, nella vostra vita, qualcosa che vi appassioni tanto da farlo gratis.

Un affollatissimo comizio della campagna di Bernie Sanders 2016.

Facciamo un bel fast-forward fino al febbraio del duemilasedici.
Dopo quasi un anno di campagna elettorale si arriva finalmente alla resa dei conti del voto. E lì succede il miracolo. Quello che nessuno, quando Bernie annunciò la sua candadatura, si sarebbe mai potuto sognare. Sanders pareggia in Iowa e vince in New Hampshire. Da una parte dell'opinione pubblica questo viene accolto come l'inizio di un effetto domino che travolgerà il paese. Ma passano le settimane e tanti altri stati vanno al voto. L'entusiasmo si ridimensiona. Alcuni stati li vince, alcuni li perde. Si arriva al super Tuesday. Bernie perde, ma non di troppo. Adesso per il senatore vincere non è impossibile, ma è molto dura. I media sono pronti a pronunciarne l'elogio funebre: non vedevano l'ora. Ma Bernie ricomincia a vincere e torna più forte di prima, vincendo sette stati di fila. Ribaltando sondaggi, come in Michigan, che lo davano perdente addirittura di trenta punti, il senatore si aggrappa con le unghie e con i denti alla speranza di poter vincere la nomination. Quando il diciannove Aprile del duemilasedici si giunge finalmente alle primarie a New York quella sembra essere l'ultima spiaggia per Bernie per effettuare un sorpasso. Se vince cambia tutto, ma se perde è finita. New York è una sfida simbolica: la città dove è nato e cresciuto Sanders, e della quale porta con sé l'eco ogni volta che apre bocca, ma anche quella per la quale Hillary è stata senatrice per otto anni. Ci si gioca davvero tutto. Il nostro eroe perderà di misura, e da lì in poi le probabilità di vittoria diventano veramente scarse.
Pochi mesi dopo, dei documenti rilasciati da Wikileaks sosterranno che il processo delle primarie sarebbe stato manipolato dagli organi del partito democratico in modo da favorire Hillary Clinton, Questo portò tutti noi sostenitori di Sanders ad infuriarci non poco. Quelle accuse, c'è da dirlo, non sono mai state provate, e a quattro anni di distanza sembra ormai condiviso il giudizio secondo il quale non vi siano state delle manipolazioni effettive del processo elettorale, sebbene invece sia stato mostrato, attraverso il leak di alcune mail, l'atteggiamento di ostilità (per usare un eufemismo) dei vertici del partito democratico nei confronti del senatore del Vermont. Certo è che il sospetto delle irregolarità inasprirà ancora di più i toni del dibattito all'interno del partito democratico in quei mesi. La frangia più intransigente dell'elettorato di Sanders, che già vedeva Hillary Clinton come il male assoluto, incarnazione in terra del corporativismo più corrotto e oscuro, è pronta ad astenersi dal sostenere l'ex senatrice nelle elezioni generali contro Donald Trump, non votando o sostenendo piuttosto candidati minori con zero possibilità di vittoria. All'interno del partito democratico c'è aria di guerra civile.

Hillary Clinton, insieme al suo candidato vicepresidente Tim Kaine, riceve la nomination del partito democratico durante la convention del luglio 2016. Quella convention sarà segnata da laceranti contrasti e proteste portate avanti dalle frange più estremiste dei sostenitori di Bernie Sanders, profondamente scosse dalle rivelazioni di Wikileaks rilasciate poco tempo prima.

Ed è in un momento drammatico come questo che Bernie Sanders mostra davvero la sua grandezza.
Nonostante il partito democratico gli abbia dato contro in tutti i modi per mesi, nonostante i media vicini al partito lo abbiano spesso trascurato e talvolta denigrato, nonostante per una vita non si sia mai affiliato a questo partito, ma anzi abbia dovuto combatterlo per poter emergere, nonostante l'odio che certe persone in quel partito nutrivano verso di lui, Bernie Sanders intuisce la responsabilità storica che ha addosso in quel momento. Non accettare il compromesso di calare la testa a favore del partito democratico significa, in quel momento, allontanare completamente una buona parte dei potenziali elettori di quel partito. E questo vorrebbe dire sicura sconfitta alle elezioni per il partito Democratico. E nel giugno/luglio del duemilasedici questo significa una cosa sola: Donald Trump presidente. Ed è quindi in questo momento che per la prima volta nella sua vita Bernie Sanders si trova a dover scendere a compromessi con i suoi ideali. Lui forse crede in cuor suo che Hillary Clinton non farà bene alle classi meno agiate, quelle che lui ha sempre tenuto più a cuore, ma è pienamente consapevole del disastro che significherebbe per il paese la presidenza in mano ad uomo come Donald J. Trump.

Chissà cosa sarà passato, in quei giorni, nella testa di Bernie Sanders. Gli saranno tornati in mente i ricordi di quando all'inizio della sua carriera politica si trovava a combattere ferocemente contro il partito democratico del Vermont che paralizzava la sua attività politica da sindaco. Si sarà ricordato dei tempi in cui usciva urlando e ribaltando scrivanie dall'aula del consiglio comunale di Burlington perché i consiglieri democratici non gli permettevano di far passare i progetti da lui sostenuti. Si sarà ricordato di quando nei primi anni a Washington tutti lo trattavano come lo scemo del villaggio. Lo prendevano in giro per il look trasandato, per l'accento marcato, perché urlava troppo. Si sarà ricordato di quando gli uomini del partito democratico andavano in televisione a dirgli che era una stronzo scorbutico, a dirgli che era un maschilista, a dirgli che era un pazzo comunista. Si sarà ricordato di tutto il fango che gli è stato gettato addosso negli anni e di tutte quelle volte che ha dovuto urlare più forte degli altri per farsi sentire. Perchè Bernie Sanders nel duemilasedici ha settantacinque anni e li dimostra tutti. Le rughe e i capelli bianchi sono il segno evidente di una vita passata col peso dell'ingiustizia costantemente sulle spalle. E basta andarsi a cercare un qualunque discorso che Bernie abbia mai tenuto nella sua carriera politica, che sia negli anni del congresso o in quelli del Senato, per vedere nei suoi occhi quel fuoco che l'ha animato e l'ha consumato per settant'anni. Ma quel fuoco, che non è mai sceso a compromessi, deve ora contenersi: Bernie Sanders non può permettere che Donald Trump diventi il presidente degli Stati Uniti. Significherebbe mandare all'aria tutto quanto fatto in una vita passata a stare dalla parte giusta della storia.

(Lascio qui anche il link nel caso il video non partisse)
Un videomontaggio realizzato da un supporter di Bernie Sanders durante la campagna del 2019. L'intento di questo spot è quello di dare un assaggio dell'atteggiamento pregiudiziale riservato dai media mainstream nei confronti del senatore del Vermont

Ma l'aiuto di Bernie Sanders non basterà. Hillary Clinton perderà le elezioni contro Donald Trump. Ancora oggi si scrivono articoli su articoli, dissertazioni su dissertazioni su cosa sia andato storto in quell'elezione, e come sia stato possibile risvegliarci la mattina del nove di novembre del 2016 con Donald Trump come nuovo inquilino della casa bianca. Non è compito di questo articolo indagare sulle cause che hanno portato a questo risultato. La mia opinione, per quello che mai potrà valere, è che sia davvero andato storto tutto quello che poteva andare storto in quell'elezione. E questo include la scelta di Hillary Clinton come candidato del partito Democratico.

Ci ricordiamo tutti la mattina del nove novembre. O almeno, io me la ricordo. Mi ricordo di come sembrava fosse caduto il mondo. Ricordo lo sbigottimento, la confusione. Ricordo l'ironia nervosa che si faceva sugli scenari apocalittici che si prospettavano. Perché per quanto Hillary fosse un candidato tutto sommato molto debole, alla fine eravamo tutti convinti che fosse impossibile perdere contro Donald Trump. E ci rassicuravano i media, dai quali fior fior di opinionisti sostenevano a ruota continua che non sarebbe mai diventato presidente. E ci rassicuravano i sondaggi, che lo davano sempre sotto di cinque o sei punti. E alla fine i sondaggi ci avevano cannato, come tante volte avevano cannato durante le primarie sottostimando Bernie Sanders. L'ironia di questa vita ha riservato per Hillary un ultimo, amarissimo, colpo basso: la vittoria nel voto popolare. Ancora una volta, come otto anni prima. Ed è dunque qui che si consuma l'epilogo della storia di Hillary Clinton, figura tragica.

Hillary Clinton durante il "concession speech" la notte delle elezioni. Dietro di lei il marito Bill, ex presidente, e il senatore della Virginia Tim Kaine, candidato vicepresidente.


Il ruolo dei media nell'elezione di Donald Trump è uno dei pochi aspetti di quell'annata sulla quale è possibile raggiungere un consenso abbastanza condiviso. È infatti innegabile come questi ultimi abbiano una grossa responsabilità nell'accaduto. Quando Donald Trump annunciò la sua candidatura, nel giugno del 2015, i media impazzirono. Quasi increduli di avere tra le mani una combinazione in carne ed ossa di gossip e politica: la definizione vivente di infotainment. Per un anno e mezzo qualunque canale non ha fatto altro che parlare di Donald Trump, e la maggior parte del tempo in termini negativi, sia chiaro. Per darvi un'idea, durante le primarie il tempo dedicato a coprire la campagna di Bernie Sanders era la metà di quello dedicato alla campagna di Hillary Clinton, che a sua volta era a metà del tempo dedicato alla campagna di Donald Trump. La sovraesposizione mediatica non ha fatto altro che accrescere costantemente il consenso attorno al magnate conduttore di reality show, e nonostante l'indignazione che il pubblico generalista mostrava verso ogni sua dichiarazione scandalosa o proposta fantasiosa, resta valida l'inoppugnabile legge secondo cui ogni pubblicità è buona pubblicità. È una macchina che si autoalimenta: l'edgyness di Trump genera ascolti, il fatto che generi ascolti spinge i media a voler parlare sempre più di Trump, parlare di Trump porta ad aumentare la sua popolarità, l'aumento di popolarità fa notizia, e  appena la notizia si spegne, si cerca il nuovo scandalo e ricomincia la giostra. Oggi questo è un processo sotto gli occhi di tutti. È diventato quasi ovvio. Basta aprire in un qualunque momento di un qualunque giorno la pagina Facebook di un generico leader dalla destra italiana (e non solo) per vedere come la ricerca della polemica fine a sé stessa, che più fa scandalo e meglio è, sia sapientemente utilizzata come mezzo per aumentare la copertura mediatica attorno ad una certa figura. Ma nel 2016 questi meccanismi non erano un'ovvietà. Anzi, forse non erano nemmeno usati consapevolmente. Dichiarazioni scandalose che in una qualsiasi altra era politica avrebbero significato la morte politica di qualunque candidato, per Donald Trump significano l'unica cosa che conta: eco mediatica.

Donald Trump prende in giro, durante un comizio, un giornalista a lui ostile schernendone le disabilità fisiche.

CAPITOLO III: IL RITORNO DELLO JEDI

Negli anni di Trump il protagonista della nostra storia non è stato certo fermo. Scrive libri che diventano best seller pervadendo, con le sue idee, anche le frange più moderate della popolazione. Fonda il movimento Our Revolution, con l'obbiettivo di sostenere candidati progressisti all'interno del partito democratico. A quel movimento seguono altre formazioni simili, più o meno direttamente collegate all'attività politica di Bernie Sanders, come Brand New Congress o Justice Democrats. Bernie Sanders si prepara a formare una nuova classe politica, con la consapevolezza del fatto che una guerra di tali proporzioni contro il potere consolidato all'interno del partito democratico non può essere vinta alla prima battaglia. Ed è da questa attività che nascono alcune delle figure politiche che hanno avuto maggiore rilevanza mediatica in questi anni all'interno del congresso americano: Ayanna Pressley, Ilhan Omar, Rashida Tlaib e, una su tutte, Alexandria Ocasio-Cortez. Questa nuova classe politica, che si definisce sotto il termine di democratic socialists, deve tutto all'uomo che per primo si è permesso di sdoganare quelle idee al gusto di follia radicale come il Medicare for All o il ribaltamento di Citizens United. Non fraintendetemi: il partito democratico resta ancora, nella sostanza, quello che era nel 2016, e resta ancora ben inviso al senatore del Vermont. Nonostante ciò, dei piccoli germogli di cambiamento iniziano a vedersi anche in quel terreno così brullo che è il partito del 2017/2018.

Da sinistra a destra: Rashida Tlaib, Ilhan Omar, Alexandria Ocasio-Cortez e Ayanna Pressley, conosciute come "The Squad", la fazione più progressista dell'attuale congresso USA.

Ed ecco che si arriva al 2019. Ed ecco che inizia un altro giro di primarie.
Sono passati tre anni dalla debàcle di Hillary. Sembra non essere cambiato niente, invece è cambiato tutto. La finestra di Overton (lo spettro delle opinioni politicamente accettabili) all'interno del partito democratico è stata fortemente spostata a sinistra. Ci sono tantissimi candidati in campo: più o meno una ventina. Ma i temi che dominano la campagna elettorale, questa volta, sono sostanziale emanazione di quel colosso che è stata la campagna di Bernie Sanders 2016. Nel 2016 nessuno, nel partito democratico, osava proporre una nuovo progetto per la sanità in America. Adesso tutti i candidati, anche i più conservatori, ritengono necessaria una qualche forma, più o meno radicale, di riforma sanitaria. Prima del 2016 il fatto di accettare donazioni milionarie non era un fatto di cui vergognarsi, mentre adesso persino i candidati più a destra iniziano a provare forte imbarazzo nel ricevere finanziamenti dai grandi donatori. Prima del 2016 nessuno parlava di rendere le università pubbliche accessibili a tutti (in America, nel migliore dei casi, costano 20.000 dollari l'anno). Adesso quasi tutti propongono di rendere le università pubbliche gratuite almeno per le fasce meno agiate della popolazione. Prima del 2016 pochi, ai vertici del partito democratico, sostenevano attivamente l'innalzamento del salario minimo orario a quindici dollari all'ora (che sono, per i costi della vita in America, il sufficiente per vivere). Adesso lo vogliono tutti. La rivoluzione politica di Bernie Sanders passa anche da lì, da questo lato più morbido, più calmo ma altrettanto inesorabile. Nel giro di tre anni, giorno dopo giorno, agli occhi dell'opinione pubblica idee che sembravano pericolose proposte di un pazzo sognatore comunista che sembra Doc Brown ma più gobbo, oggi dominano il dibattito politico.

Quando Bernie annuncia la sua candidatura, a Febbraio del 2019, la gente non è troppo sorpresa. Il fatto che nonostante l'età avanzata il Senatore non avesse mai totalmente escluso l'idea di una nuova discesa in campo lasciava presagire che qualcosa stesse bollendo in pentola. Subito i media hanno iniziato a gufare da tutte le parti. "Bernie Sanders ha perso il suo appeal", "Il tempo di Bernie è passato", "Una campagna persa in partenza" e così via. D'altronde il rapporto del senatore coi media non è mai stato roseo. Nonostante questo generale atteggiamento che i commentatori politici decidono di riservargli, per mesi e mesi Sanders è secondo nei sondaggi, dietro solo a quel Joe Biden che, ormai superato il periodo di lutto, è pronto ad incassare tutto il credito politico accumulato passando otto anni ad essere il numero due del popolarissimo Obama. Molti degli innumerevoli candidati alle primarie democratiche del 2019/20 non troveranno posto nella nostra storia, altrimenti stiamo qui fino alla prossima elezione (state davvero ancora leggendo? Un forte abbraccio per voi). Sono tutti individui mega interessanti e quando volete mi mandate un messaggio e ne parliamo, ma ai fini della nostra storia ci concentreremo sui quattro candidati che hanno dominato la scena per tutta la campagna elettorale. I nostri quattro cavalieri dell'Apocalisse.

Iniziamo proprio da Joe Biden. Classe 1942, Biden è un politico di lunghissimo corso. È stato senatore per il Delaware per trentasei anni, abbandonando il suo seggio senatoriale solo per servire il paese come vicepresidente. Biden rappresenta l'ala più centrista e moderata del partito Democratico. Da sempre fa vanto della sua capacità di saper stringere accordi bipartisan con il partito Repubblicano, e si propone come uomo del Fare. La sua capacità di mediazione con la destra permetterebbe infatti, a suo dire, di sbloccare il paese attraverso uno sforzo comune al servizio della collettività. Per Biden questo è il terzo assalto alla nomination democratica. Ci aveva provato trent'anni fa, nel 1988, a quarantasette anni, con la grinta del nuovo che avanza e una chioma ancora castana sopra la testa. Ma quell'anno fu accusato di plagio per aver tenuto, durante un comizio, un discorso fin troppo simile nella forma e nei contenuti a quello dell'allora leader del partito laburista britannico. La macchina del fango mediatica fece il resto e la sua candidatura cadde nel nulla. Ci riprovò vent'anni dopo, nel 2008, ma in mezzo a due giganti politici come Hillary Clinton e Barack Obama non trovò spazio per emergere. Il 2016 sarebbe dovuto essere il suo anno, ma subì, come precedentemente menzionato, un terribile lutto. Oggi Joe Biden ha settantasette anni, uno in meno di Bernie Sanders, e ci riprova per la terza ed ultima volta.

Nel gennaio del 2017 Barack Obama insignisce Joe Biden della Presidential Medal of Freedom. Biden non riuscì a trattenere le lacrime.

Sempre sul versante centrista e moderato c'è poi Pete Buttigieg. Al momento della candidatura questo sbarbatello con la faccia di chi ha rubato un pugno di caramelle dal negozio era sostanzialmente sconosciuto al pubblico americano. Ciononostante, tolto il cognome, piuttosto difficile da pronunciare, questo ragazzo sembra essere stato costruito in laboratorio per diventare presidente degli Stati Uniti. Classe 1982, Pete è figlio di un importante intellettuale della sinistra americana dello scorso secolo (traduttore, tra le altre cose, delle opere di Antonio Gramsci in lingua inglese), ha servito nell'esercito combattendo in Afghanistan , è laureato ad Harvard e parla otto lingue. È stato il più giovane sindaco di una città con più di centomila abitanti (South Bend, Indiana), e la sua esperienza da amministratore sembra essere stata tutto sommato molto positiva. Sostanzialmente il curriculum ideale per ambire alla carica di presidente. Buttigieg ha però un problema: sebbene abbia deciso di proporsi come un centrista per attirare i voti dell'elettorato alla sua destra, ha una limitazione in questo senso dettata dal proprio orientamento sessuale. Buttigieg è infatti il primo candidato nella storia delle primarie democratiche dichiaratamente omosessuale. Questo fatto, che non è un problema nel terreno delle primarie, ne limita le possibilità di espansione a destra nel caso di vittoria della nomination, cosa che porterà l'establishment democratico a non puntare tutto su di lui, nonostante evidenti simpatie.

Pete Buttigieg (a destra), con l'attuale vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence. Entrambi provenienti dall'Indiana, stato del quale Pence è stato governatore, i due non godono certo della reciproca simpatia, essendo Pence un fondamentalista cristiano totalmente avverso ai diritti della comunità LGBTQ.

Dulcis in fundo, abbiamo Elizabeth "Liz" Warren. Liz rappresenta l'ala più progressista all'interno del partito Democratico (non dimentichiamo che Bernie Sanders, seppur partecipi alle primarie, non è iscritto al Partito Democratico). Nata nel 1949, Liz Warren è una secchiona in piena regola. Professoressa di diritto ad Harvard, ha passato tutta la vita sui libri. Pragmatica e metodica, è stata per gran parte della sua vita una Repubblicana, finché un giorno, mentre approfondiva nei suoi studi le cause che portano i cittadini americani alla bancarotta, non venne folgorata dalla nitida percezione dell'ingiustizia annidantesi all'interno del sistema bancario statunitense. Da lì in avanti iniziò ad impegnarsi in politica, guadagnandosi un posto di spicco all'interno del partito Democratico e diventando anno dopo anno la principessa del progressismo americano. Una amicizia di vecchia data la lega a Bernie Sanders, con il quale collabora dal 2013, anno in cui è stata eletta Senatrice per lo stato del Massachussets. Nonostante la sua fama di progressista feroce, Liz Warren si macchiò, agli occhi dell'ala più oltranzista della sinistra americana, di peccato mortale quando, nel 2016, si rifiutò di dare il proprio endorsement (dichiarazione di appoggio politico) a Bernie Sanders, restando neutrale in un primo momento ed appoggiando Hillary Clinton poi. Un tradimento che, posso garantire, non è stato dimenticato.

Barack Obama con Elizabeth Warren nel 2010. La Warren farà parte di tutta una serie di organi di controllo durante la presidenza Obama. Ad un certo punto, durante la corsa delle primarie del 2020, Obama mostrerà un'estrema simpatia verso la senatrice del Massachussets.

Per tutta la prima parte del 2019 i sondaggi lasciano intuire una classifica abbastanza rigida: Biden primo, Bernie secondo, Liz terza e Pete quarto, senza nessuno scossone che minacci quest'ordine. Bernie in questi mesi lavora sul ricreare la coalizione che lo aveva portato all'ottimo risultato nel 2016, assicurandosi l'appoggio delle associazioni sindacali più note e delle personalità più conosciute del progressismo americano, come Micheal Moore, Naomi Klein e Noam Chomsky. Ma il 2016 ha insegnato a Bernie che quel supporto, per quanto entusiasta e devoto, per quanto anche numericamente significativo, non è sufficiente a vincere la nomination. Nel 2016 la critica che più si muoveva al suo elettorato era quella dell'eccessiva omogeneità demografica, riassunta in un termine che trovo piuttosto fastidioso: Bernie Bro. Il Bernie Bro è, secondo i media, l'elettore medio di Bernie Sanders: maschio, bianco, istruito, eterosessuale. Non la demografica migliore per vincere la nomination del partito che si fa promotore delle istanze di tutte le minoranze. Imparando da questo errore, Bernie lavora tantissimo, nel 2019, per cercare di conquistarsi il supporto di quelle fasce demografiche che non era riuscito ad entusiasmare quattro anni prima. Nonostante una storia personale che parla di battaglie, sempre in prima linea, a favore dei diritti civili per ogni tipo di minoranza, quel supporto non arriva di default. E dunque Bernie si impegna, comizio dopo comizio, a cercare di conquistare quegli elettori. Lo aiutano anche endorsement che arrivano da personalità dello spettacolo, come Killer Mike, Cardi B, Ariana Grande, Emily Ratajkowski e molti altri.

La pop star Cardi B e Bernie Sanders durante le riprese di un video per la campagna elettorale di quest'ultimo.

Mese dopo mese siamo riusciti ad apprezzare il fatto che questa volta Bernie abbia costruito un elettorato davvero trasversale. Dai professori universitari a quelli con la licenza elementare, dai bianchi agli afroamericani, da Nord a Sud. Resta solo una demografica per lui inespugnabile: gli over 60. Difatti, mentre sugli under 35 il senatore del Vermont è la prima scelta senza nemmeno una seria concorrenza, tra gli over 60 risulta davvero impopolare. Credo che questo sia un dato da tenere in seria considerazione, perché da il senso di quanto la Rivoluzione politica portata avanti dal senatore sia un fatto fortemente generazionale. Millenials e generazione Z sono più compatti che mai nel supporto per Bernie, mentre generazione X e boomers sono sostanzialmente insensibili all'onda sandersiana. E questo dato, per quanto mi riguarda, è già di per sé una grande vittoria. Anche se Bernie non dovesse mai diventare presidente degli Stati Uniti, il suo messaggio e la sua politica hanno vinto il futuro. La storia farà il suo corso e le masse che oggi si entusiasmano ascoltandone i comizi, domani avranno figli e nipoti, e quelle radicali idee che sembravano impossibili da portare in America, diventeranno le idee di tutti. Forse non sarà il 2024, magari nemmeno il 2028, ma è solo questione di tempo. Perché anche se Bernie non dovesse vincere il presente, cari miei, il futuro lo abbiamo già vinto.

A giugno è il momento di iniziare con i dibattiti. Purtroppo in Italia è un aspetto che si è perso negli anni, ma il dibattito televisivo è un momento centrale dell'esperienza politica americana. I dibattiti cambiano il corso della storia, lo sanno bene ad esempio Nixon e Carter, due presidenti le cui sconfitte sono state attribuite a performance deludenti nei dibattiti televisivi contro due mostri del dibattito come John Kennedy e Ronald Reagan. E, c'è da ammetterlo, Bernie fa parte del club dei mostri. I dibattiti estivi sono affollatissimi: 20 i candidati che si qualificano, suddivisi spesso in due serate da dieci candidati l'uno. Bernie durante i dibattiti viene attaccato da tutte le parti, e quando può fa fronte comune con Liz Warren per difendere il fronte progressista dagli attacchi dell'armata moderata. I due non si attaccano mai tra di loro, nemmeno quando dovrebbero, segno dell'amicizia che scorre tra i due, certo, ma forse anche di un tacito accordo stipulato prima dell'inizio della corsa alla nomination. Però queste sono solo speculazioni.


Bernie Sanders in un momento di selvaggia autenticità mette a tacere il congressman Tim Ryan che gli aveva contestato di non conoscere abbastanza bene la sua proposta di Medicare For All durante il dibattito di Luglio 2019. Lui risponderà "I wrote the damn bill", frase che diventerà poi uno degli slogan non ufficiali della campagna di Sanders.

Ma dopo una primavera tiepida che aveva portato tanta speranza, con l'arrivo della torrida estate le cose cambiano. I sondaggi vedono l'ascesa di Liz Warren a diretto scapito del senatore del Vermont. Settimana dopo settimana ci trovavamo ad assistere a una costante perdita di punti di Bernie, e tutti i punti che perdeva lui li prendeva lei. Ma cosa stava succedendo?
Tante cose: Bernie ha settantotto anni e ne dimostra dieci in più, cosa che non rassicura di certo l'elettorato. Liz ne ha settanta e ne dimostra dieci in meno. I media hanno sempre dipinto un'immagine di un Bernie estremista, rumoroso e intransigente, mentre la Warren viene ritratta come una più pacata e rassicurante professoressa, incline al dialogo e più capace di attrarre i voti dell'elettorato moderato. Arrivati a settembre era ormai chiara una cosa: Liz Warren era la favorita. Sebbene Joe Biden rimanesse il primo nei sondaggi a livello nazionale, tantissimi altri indicatori politici davano Liz Warren come quella con le migliori chance di diventare il candidato presidente. Era tremendamente chiaro a tutti noi: negli ultimi tre anni il partito democratico ha attraversato una profonda frattura tra l'ala progressista e quella moderata, l'unica via che pare percorribile è quella del compromesso. L'intransigenza di Bernie ha fatto tantissimo per spostare l'elettorato a sinistra, ma non abbastanza per far sì che la sinistra del partito potesse andare avanti da sola. Il sogno di vedere Bernie Sanders presidente degli Stati Uniti stava per essere archiviato. Ad inizio Ottobre Liz Warren era stabilmente seconda in tutti i sondaggi, dietro solo a Biden, mentre Bernie, da terzo, continuava a perdere terreno. L'ottimismo, la speranza, quello slancio sognatore che aveva caratterizzato i suoi sostenitori sin dal 2016 aveva lasciato spazio alla disillusione, all'amarezza e alla sconfortante consapevolezza di aver perso per sempre la possibilità di far vincere un candidato di quelli che ti capitano una volta nella vita. Perché Liz Warren è una brava donna, una persona capace e una progressista ferrea da ormai venticinque anni, ma lei non è Bernie Sanders. Non ha l'ostinata coerenza, la fedeltà assoluta ai propri ideali, la devozione totale alla propria missione che il senatore del Vermont ha mostrato per tutta la sua vita. Non ha la sua incorruttibilità. Di Bernie Sanders ne nasce uno per secolo, e noi stavamo perdendo l'occasione di una vita.

All'inizio dell'Ottobre 2019, durante un comizio in Nevada, il senatore del Vermont si accascia a terra. Viene portato d'urgenza in ospedale. Ha avuto un infarto.

È la fine.
Anche se tutti si sono premurati a far sapere poche ore dopo che Bernie stava bene, quell'infarto era la ceralacca che sigillava per sempre ogni sua possibilità di vittoria. Era già stato attaccato da tutte le parti per il fatto di essere il candidato più vecchio. Quasi ottant'anni sono già troppi da giustificare davanti all'opinione pubblica americana. E nonostante ciò aveva combattuto, mostrando referti medici che ne indicavano il perfetto stato di salute. Però al cuore non si comanda. E ottant'anni di battaglie, marce e rabbia peserebbero sul cuore di chiunque, anche sul cuore di un guerriero. Mesi e mesi di campagna elettorale costante, macinando centinaia e centinaia di chilometri al giorno per andare da una parte all'altra del paese, comizio dopo comizio, intervista dopo intervista, senza fermarsi mai, senza accennare, neanche per un secondo, ad abbassare il tono della voce. Nemmeno il cuore più grande d'America è riuscito a reggere a tanto.

Tutti a casa, allora. Lo spettacolo è finito. Grazie di aver letto fino a qui e di aver ascoltato la bellissima storia di un uomo che ha consacrato la propria vita al prossimo. Purtroppo queste cose succedono, perché la vita è una merda. Lasciate un commento se vi va. La nostra storia finisce qui.


E invece no.
Dopo tre giorni, resuscita. Il guerriero non ha ancora finito di combattere la sua ultima battaglia. Tutto ciò che non lo uccide, lo rende più forte. Finché avrà fiato in corpo questo pazzo assoluto non vuole mollare un millimetro.

Bernie Sanders esce dall'ospedale tre giorni dopo l'attacco di cuore. Un'immagine che vale più di mille parole.


E qui succede qualcosa di ancora più magico. Mentre i media si sbizzarriscono nello scrivere epitaffi politici sulla sua campagna elettorale, qualcosa si smuove nel mondo del progressismo americano. Nel giro di una settamana Bernie riceve gli endorsement di Alexandria Ocasio-Cortez, Rashida Tlaib e Ilhan Omar, tre dei quattro membri della Squad, che fino a quel momento si erano mantenute neutrali evitando di fare una scelta di campo tra Sanders e Warren. Nel giro di un paio di settimane Bernie organizza due eventi mastodontici, uno a New York con Alexandria e uno a Chicago con Rashida. Cinquantamila persone in totale sommando i due eventi. Il motto è uno: "Bernie is Back". Nel giro di pochissimo tempo il fronte progressista si compatta attorno a Bernie, e la campagna prende uno slancio incredibile. Risale potentemente sondaggi e si riprende il secondo posto a metà novembre, contestualmente stabilisce il nuovo record di numero di singole donazioni per una campagna nella storia degli Stati Uniti. Tutti lo davano per morto. Incluso me. E invece è resuscitato. Ed è resuscitato anche grazie a tutto quello che ha costruito in questi anni. Perché Bernie Sanders non è solo un leader per il progressismo, è una fonte di ispirazione per milioni di persone. E in questi anni lui ha creato da solo una classe politica che non avrebbe mai visto la luce altrimenti. Alexandria, Ilhan, Rashida e tante altre figure politiche che in questi anni si sono imposte come leader di quella fazione politica hanno tutte iniziato dal fare volontariato per la campagna di Bernie nel 2016. E quando lui ne ha più avuto bisogno, loro sono state lì, a sorreggerlo quando stava per cadere.
Dal palco del suo evento a New York con Alexandria, Bernie pronuncerà un discorso commovente, che segna definitivamente il ritorno della sua candidatura. Lascio qui il passaggio più bello.

"Guardatevi intorno e trovate qualcuno nella folla che non conoscete. Magari qualcuno che non vi somiglia. Siete disposti a combattere per quella persona quanto lo siete per voi stessi? E se milioni di noi sono disposti a farlo, non solo vinceremo quest'elezione, ma insieme trasformeremo questo paese"

Ma nuovi ostacoli spuntano all'orizzonte. Non dimentichiamoci che comunque Bernie resta un candidato scomodo per la classe dirigente. E il fatto che abbia avuto la presunzione di ritornare all'attacco dopo che gli era stata data dal destino l'occasione di deporre le armi con onore avrà dato non poco fastidio ai piani alti del partito democratico. A fine Ottobre Barack Obama rilascia un'intervista dove dichiara che sarebbe pronto ad intervenire nel caso in cui il partito democratico dovesse spostarsi troppo a sinistra (leggi: Bernie Sanders). I media ignorano il più possibile i sondaggi che vedono Bernie risalire, e ciò non fa altro che polarizzare ancora di più il dibattito, radicalizzare i suoi sostenitori e far spingere l'acceleratore alla campagna sulle attività di volontariato. È il periodo del Bernie Blackout, dove in tv e sui giornali si parla di tutti meno che dell'unico realmente in grado di insidiare Joe Biden. Il Blackout dura da metà ottobre a fine Dicembre, quando ormai la sete di notizie della macchina mediatica non può più sopportare questa arsura autoinflitta. Alle porte dell'anno nuovo, torna la luce. Il New York Times titola "Bernie sarà difficile da battere", seguito da MSNBC e poi tutte le altre testate. Adesso è ufficiale. Nessuno può più non riconoscere il fatto che Bernie sia tornato più forte di prima e che adesso, mentre guadagna terreno in tutti i primi stati, macina donazioni e arriva quasi a pareggiare Biden nei sondaggi nazionali, è lui l'uomo da battere.

Il nuovo decennio si apre con una serie di sondaggi che, uno dopo l'altro, gettano benzina sulle speranze dei sostenitori di Sanders: Bernie primo in Iowa, Bernie primo in New Hampshire, Bernie primo a parimerito in Nevada. Il vento finalmente soffia nella direzione giusta e nulla sembra essere in grado di fermare l'ascesa del Senatore. Non ci riesce Hillary Clinton, che da buon personaggio tragico, resta intrappolata nel complesso che le ha generato la sconfitta di quattro anni fa, rilasciando un'intervista dove critica ferocemente il suo avversario del 2016. Non ci riescono gli opinionisti che, dalle tv di tutta America, cercano di scongiurare l'ascesa del senatore con profezie non particolarmente ispirate sulla sua imminente caduta.

Non ci riesce nemmeno il colpo che fa più male, quello che arriva sempre da chi meno te l'aspetteresti. A metà Gennaio fonti vicine alla campagna elettorale di Elizabeth Warren dichiarano che ad una cena privata nel Dicembre del 2018 Bernie Sanders avrebbe detto che "Una donna non può diventare presidente". Sanders smentisce immediatamente, ma la macchina del fango è già pronta e rodata per distruggerlo additandolo come sessista. Elizabeth Warren conferma l'accaduto. Bernie continua a negare veementemente. A chi credere?

Francamente, l'idea che mi sono fatto è che potrebbe esserci stato, con o senza una certa malizia, un fraintendimento delle parole di Bernie Sanders. Bernie potrebbe effettivamente aver detto, durante quella cena, che a causa del sessismo diffuso, per una donna potrebbe essere più difficile battere Donald Trump. Non è un'idea nuova. È una narrativa che è andata molto forte all'indomani della sconfitta di Hillary Clinton contro Donald Trump nel 2016. Bernie potrebbe effettivamente aver fatto una considerazione del genere, di tipo puramente pragmatico, che poi potrebbe essere stata male interpretata e messa da parte, pronta ad uscire al momento opportuno quando ci sarebbe stato bisogno di affondare la barca del senatore. 

 Bernie Sanders e Liz Warren durante uno scambio al vetriolo dopo il dibattito democratico di Gennaio 2020. Tra di loro il miliardario Tom Steyer, un candidato minore.

L'attacco in sé non ha avuto grande impatto dal punto di vista dei consensi: Bernie ha continuato a salire nei sondaggi ed Elizabeth ha continuato a calare. Perché la biografia del Senatore parla per lui: un uomo che si definiva femminista negli anni sessanta, che negli anni ottanta rilasciava interviste dove dichiarava che non vedeva l'ora di vedere una donna come presidente degli Stati Uniti, come avrebbe mi potuto cambiare idea tutt'a un tratto? L'attacco non scalfisce il supporto dietro il senatore, ma di fatto questa vicenda è stata vissuta come una pugnalata. Un attacco del genere te lo puoi aspettare da destra, da chi non ti conosce, da chi ti ha sempre messo i bastoni tra le ruote. Ma vederlo arrivare dal tuo alleato più prossimo, dalla donna con la quale hai combattuto mille battaglie, da una vera amica da più di vent'anni, quello deve davvero aver fatto male. Ci avevamo messo tantissimo a perdonare Liz per il fatto di non averlo appoggiato durante la campagna del 2016, nonostante quell'anno lui si fosse candidato solo perché lei aveva rifiutato di farlo. Ma ci eravamo riusciti, e pensavamo che lei fosse dalla nostra parte, dalla sua parte. È la stessa storia che è stata rappresentata in centinaia di tragedie nella storia del teatro mondiale: ma questa volta Bruto non ha davvero ucciso Cesare. Sembra anche che i due abbiano fatto pace, almeno in pubblico.

E adesso siamo arrivati davvero al bivio. Il 3 di Febbraio iniziano ufficialmente le primarie democratiche con il voto in Iowa. Ho riflettuto molto sul finale da dare ad una storia che ho voluto titolare come "La storia più bella". La storia più bella merita il finale più bello. Sfortunatamente però, non sono io il regista di questa storia e non ho nessun potere sul risultato che produrranno delle consultazioni elettorali ad un oceano di distanza da me. Dobbiamo fare i conti col fatto che questa storia può avere due finali, uno lieto e uno no. Non voglio prendermi la responsabilità di dover dare alla storia più bella un finale deludente. Se queste primarie vedessero Bernie Sanders uscire sconfitto potremo comunque guardarci indietro e vedere tutto ciò che di buono è stato fatto in questi anni: la creazione di un nuovo elettorato, giovane e attivo, pronto a combattere una serie di battaglie che la storia dovrà affrontare, e di una nuova classe politica che sta sorgendo per rappresentare questo elettorato. Ma ci guarderemmo indietro sempre con un po' di amarezza, sapendo che una storia come questa non la vedremo mai più. Se invece Bernie dovesse tirar fuori l'ennesimo miracolo, allora questa storia sarebbe tutt'altro che finita, e voi dovreste stare un'altra ora qua a leggere della sfida tra Bernie e Donald Trump, delle conventions e bla bla bla. 

Ho deciso dunque che questa storia avrà un finale aperto e che ci fermiamo qua, sulla linea che separa il mondo vecchio da quello nuovo, il prima dal dopo. Tutto quello che avete letto può essere l'inizio di una storia più grande, oppure può essere la fine della più grande delle storie. Non ho il potere di decidere quale delle due sarà. Siamo partiti da lontanissimo, dalla Brooklyn degli anni quaranta, e siamo arrivati fino a qui. Quello che ci aspetta da domani è tutto da scoprire. Lo vivremo insieme, cercando di scovare la bellezza dove questa si saprà nascondere meglio. Se siete arrivati fino a qui vi ringrazio di cuore e spero che abbiate apprezzato, ma quello che spero ancor di più è che la prossima volta che sentirete parlare di politica, magari di politica americana, sappiate vedere oltre le noiose diramazioni legislative. Mi auguro che in mezzo a quel mare di notizie, che forniscono quadri parziali della situazione raccontati con toni mai imparziali, riusciate a vederci una storia. Una bella storia.




-Gaetano Scaduto